Poco prima dell’una di notte del 15 aprile 1912 le prime scialuppe del Titanic furono calate in mare. I passeggeri che le occupavano furono i più fortunati. Ma allora, in quell’istante, non ognuno di loro provò una sensazione di sollievo.
Il Titanic affondò nella notte tra il 14 ed il 15 aprile 1912 nel bel mezzo dell'Oceano Atlantico
Al contrario, nei primi minuti dopo la collisione con l’iceberg, molti passeggeri erano riluttanti all’idea di abbandonare l’”inaffondabile” Titanic per salire su piccole e fragili barche nel bel mezzo dell’Oceano. “Ma dove andiamo con queste scialuppe?” “Come potremo salvarci?”. Era buio, faceva un freddo cane e la terraferma più vicina distava oltre 400 miglia. Buona parte dei 710 superstiti del Titanic si pose certamente queste inquietanti domande mentre andava alla deriva su fragili scialuppe nell’oscurità della gelida notte atlantica.
Eppure, come un’apparizione miracolosa, mentre le primi luci dell’alba cominciavano a illuminare l’orizzonte, intorno alle 4 di mattina, la salvezza arrivò. Ed arrivò anche e soprattutto grazie ad un uomo che si chiamava Guglielmo Marconi.
Guglielmo Marconi era nato a Bologna il 25 aprile 1874. Suo padre era un ricco possidente terriero, mentre la madre era irlandese, appartenente ad una facoltosa famiglia di produttori di whisky. Ancora oggi, nel mondo “globalizzato”, è inconsueto avere un genitore straniero, figuriamoci allora in un piccolo paese delle prime colline bolognesi (Sasso, ora Sasso Marconi) dove la famiglia Marconi trascorreva molto tempo.
La composizione della famiglia non era l’unica “stranezza” dell’infanzia e adolescenza di Guglielmo. Per volontà della madre infatti, il figlio non frequentò scuole regolari e non ottenne mai nessun diploma o titolo universitario. Alcuni professori davano lezioni private a quel bambino solitario che cominciò ad interessarsi molto di fisica e soprattutto di elettromagnetismo.
La gente di Sasso considerava Marconi un personaggio “strambo”: parlava meglio inglese che italiano e invece di dedicarsi ai normali passatempi degli altri ragazzi, trascorreva le sue giornate in casa tra fili elettrici, sostanze chimiche e strani strumenti. Per assecondare la passione del figlio, la madre fece trasformare l’ultimo piano della casa (Villa Griffone a Sasso) in una grande “sala dei giochi” che prendeva ogni giorni di più le forme di un vero e proprio laboratorio.
La fine del diciannovesimo secolo è un’epoca molto particolare per la fisica e soprattutto l’elettromagnetismo. Nel 1864 il fisico teorico britannico Maxwell aveva sviluppato la sua teoria del campo elettromagnetico secondo la quale elettricità e magnetismo sono manifestazioni diverse della stessa entità fisica: la radiazione elettromagnetica, che si propaga come un’onda nello spazio alla velocità della luce. Come spiegato anche in un recente articolo dell’Undici, la stessa luce visibile altro non è se non un’onda elettromagnetica con una particolare lunghezza d’onda. Maxwell tirò fuori alcune equazioni che apparvero agli occhi di molti fisici dell’epoca come l’ultimo tassello della razionalizzazione matematica di ogni fenomeno naturale. Sono questi i temi che appassionano il giovane e curiosissimo Marconi e di cui legge su tutte le riviste di divulgazione scientifica che riesce a procurarsi.
Guglielmo Marconi
Pochi anni dopo le equazioni di Maxwell, il físico tedesco Heinrich Hertz ne dimostrò sperimentalmente la validità, mettendo anche a punto una procedura per generare e ricevere onde elettromagnetiche. Hertz tuttavia è un fisico di laboratorio la cui intenzione era dimostrare che il “maestro” Maxwell aveva visto giusto. Non fa parte dei suoi interessi ed obiettivi estendere al campo applicativo i risultati dei suoi esperimenti. Quando gli domandano se crede che “le sue onde” possano avere qualche applicazione, egli risponde: “Direi nessuna”…
Nel frattempo Marconi continua a giocare con i suoi strani strumenti cercando di capire come funzionano le ancora parzialmente misteriose “onde di Hertz”. La madre, che veniva svegliata anche nel mezzo della notte per assistere agli strani esperimenti, comprende però che il figlio non è un pazzo e lo mette in contatto con il prestigioso fisico bolognese Augusto Righi, riusciendo a fargli frequentare il suo laboratorio dove si studiano “le onde di Hertz”, anche se non è uno studente dell’università. In questo ambiente Marconi matura la sua idea, anzi come lui stesso ebbe a dichiarare, ne ha “una visione chiara e sicura”: servirsi delle onde di Hertz per trasmettere segnali da un luogo all’altro, ossia comunicare informazione senza far uso di fili.
L’idea era nell’aria, non si trattava di qualcosa così difficile da concepire. Eppure nessun fisico ci aveva realmente pensato, né credeva che fosse effettivamente realizzabile. Per una ragione molto semplice e logica: secondo la teoria di Maxwell, dimostrata sperimentalmente da Hertz, le onde elettromagnetiche si propagano in linea retta e per questo era impossibile che potessero superare ostacoli come montagne o colline: fare arrivare un’onda da Bologna a Firenze era già impraticabile. E nemmeno potevano arrivare molto lontano a causa della curvatura della Terra: il trasmettitore e il ricevitore dovevano “vedersi” e questo limitava drasticamente la possibile distanza di comunicazione. Esisteva già il telegrafo (con i fili) che funzionava a meraviglia; le onde non potevano servire a niente. I fili del telegrafo sì che potevano superare ogni ostacolo: erano stati addirittura posati sul fondo dell’Oceano Atlantico ed era già possibile comunicare in un attimo tra Londra e New York. Ma Marconi aveva avuto una visione…
Marconi non ha la mentalità di ricercatore accademico: è più un inventore che uno scienziato, un pioniere autodidatta, un esploratore dell’ignoto che confida soprattutto nel suo istinto e nella sua testardaggine. E così nel 1895, grazie alle sue straordinaria abilità tecniche e pratiche e ad un metodo empirico di “try and error”, Marconi riesce a trasmettere e ricevere segnali ad una distanza di qualche chilometro utilizzando onde elettromagnetiche a bassa frequenza (e quindi alta lunghezza d’onda). Ma la cosa più sorprendente è che le onde riescono a superare una piccola collina di fronte a casa sua. La visione si è fatta realtà. Nonostante i libri di fisica e molti scienziati dell’epoca sostengano che ciò che ha ottenuto non è possibile, Marconi riesce ad inviare e ricevere segnali senza fili.
La finestra del suo laboratorio all'ultimo piano di Villa Griffone a Sasso Marconi (BO) da cui Marconi diffuse primo segnale radio nel 1895
Il senso pratico di Marconi non si ferma però qui: egli comprende infatti immediatamente le enormi potenzialità di ciò che ha in mano. Per questo, lascia la sonnacchiosa Italia e si reca in Inghilterra perché é lì che “accadono le cose” ed è lì, nel cuore di un Impero all’epoca ancora sconfinato, che c’è chi possa essere interessato alle sue applicazioni: chi più degli inglesi ha bisogno di comunicare con territori e città lontane?
A Londra, anche grazie agli agganci della famiglia materna, fonda una propria azienda (la “Marconi Wireless Telegraph Company”) e deposita un brevetto inattaccabile, molto preciso e molto ambizioso che intravvede già le possibilità di comunicazione su distanze continentali. Inoltre esegue dimostrazioni pubbliche per fare pubblicità al suo rivoluzionario e stupefacente “telegrafo senza fili”. Sì, perché anche se normalmente (e giustamente) si dice che “Marconi ha inventato la radio”, in realtà per un paio di decenni con l’apparato di Marconi non si trasmette né la voce, né tantomeno la musica, bensì solo segnali Morse che prima erano trasmessi con il normale telegrafo (con i fili). Fu solo più tardi che l’invenzione di Marconi condusse alla radio così come la conosciamo oggi. La rivoluzione marconiana sta invece proprio in quel “senza fili” (wireless): le comunicazioni potevano infatti, per la prima volta, prescindere dalla fisicità di un cavo che collegasse trasmettitore e ricevitore.
Oggi questo tipo di comunicazione ci appare assolutamente normale, ne abbiamo un’esperienza quotidiana continua, ma all’epoca l’invenzione marconiana suscitò un’enorme sensazione. Quando nel 1901 riuscì a trasmettere un segnale da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico (nonostante la curvatura della Terra e quindi lo scetticismo di parte della comunità scientifica), Marconi divenne una autentica celebrità a livello mondiale. Il suo “telegrafo senza fili” cominciò ad essere usato non solo per comunicare, ma anche per esibizioni ad effetto come accendere le luci della Statua della Libertà a distanza o quelle del municipio di Sydney da una nave ancorata a Genova. Nel 1909 a Marconi fu anche assegnato il Nobel per la fisica, nonostante, come lui stesso riconosceva, le sue capacità fossero soprattutto pratiche e non prettamente scientifiche.Un’idea di quanto forte fu l’impatto delle invenzioni di Marconi sta nella lingua: la parola “antenna” fu introdotta da Marconi nell’ambito delle telecomunicazioni; fino ad allora l’”antenna” era solo il palo trasverso rispetto all’albero di una nave che sostiene in alto la vela. Marconi (il cui padre desiderava per lui una carriera in Marina) osservò che, appendendo uno dei suoi apparati su un alto palo, i segnali trasmessi (e ricevuti) potevano coprire distanze maggiori, e pensò di chiamare quel palo “antenna” perché gli ricordava l’”antenna” di una nave. L’operatore addetto alle comunicazioni radio sulle navi o sugli aerei si chiama “marconista” per via di Marconi (dite la verità: ci avevate mai riflettuto?). Per lungo tempo infine, i messaggi trasmessi dagli apparati di Marconi si chiamarono “marconigrammi” e le stazioni di comunicazione “stazioni Marconi”.
Le onde radio si muovono in linea retta, ma sono in grado di percorrere grandi distanze perché rimbalzano sulla ionosfera
Ma come fu possibile che “le onde di Marconi” riuscirono (e riescono) a viaggiare così lontano e superare le montagne nonostante la teoria di Maxwell (tuttora validissima) preveda che ciò è impossibile? La risposta sta nella ionosfera. La ionosfera è lo strato più alto dell’atmosfera, costituito da gas i cui atomi sono ionizzati, ossia resi carichi dalle radiazioni solari. Il punto cruciale è che la ionosfera è capace di riflettere le onde elettromagnetiche che, nonostante viaggino effettivamente in linea retta, “rimbalzano” una o più volte tra ionosfera e superficie terrestre riuscendo a coprire grandi distanze (oggi per avere un segnale più stabile ed amplificato, le onde vengono fatte “rimbalzare” sui satelliti). La ionosfera era sconosciuta ai tempi di Marconi ed è per questo che nessuno poteva spiegare o prevedere il comportamento delle onde…La pratica arrivò prima della teoria.
In altre parole, se Marconi avesse studiato approfonditamente i libri di fisica e avesse creduto ciecamente a quello che c’era scritto, non avrebbe mai creduto possibile quello che poi realizzò. In questo senso, la figura ed il percorso di Marconi si avvicinano a un personaggio come Cristoforo Colombo. Anche Colombo aveva “sbagliato i calcoli” (le Indie sono molto più lontane dall’Europa di quanto egli credesse), ma sia Marconi che Colombo erano molto bravi a fare ciò che facevano (navigare e convincere finanziatori il genovese, maneggiare apparati elettrici il bolognese) ed entrambi erano guidati da una tenace determinazione che sfociava nell’ossessione. Di più: entrambi avevano “visto” il loro obiettivo realizzato; nei loro occhi c’era già la visione chiara di dove volevano arrivare: si trattava “solo” di tradurla in realtà. A prescindere da ciò che dicevano i libri, gli scienziati ed il buon senso.
Marconi “vide” anche dove e come la sua invenzione poteva avere un futuro. Il suo “telegrafo senza fili” doveva dimostrarsi superiore ed alternativo al tradizionale “telegrafo con i fili” (ossia il telegrafo normale) ed il contesto dove questo poteva accadere era dove i fili non potevano arrivare, ossia in mezzo al mare…
Fino ad allora le navi erano infatti completamente isolate in mezzo al mare: non esisteva alcuna forma di comunicazione con la terraferma o altre barche se non quella visiva. Dai primi del Novecento invece le navi, soprattutto quelle che facevano servizio tra Europa ed America, cominciarono a dotarsi di un apparato Marconi wireless.
I due marconisti del Titanic: Jack Phillips (a sinistra, 25 anni) e Harold Bride (a destra, 21 anni). Bride riuscì a salvarsi, mentre Phillips non riuscì a salire su nessuna scialuppa e morì congelato
Quando salpò da Southampton il 10 aprile 1912, anche il Titanic, aveva a bordo la sua “stazione Marconi” con due marconisti. Tuttavia, nonostante il “telegrafo senza fili” venisse usato per comunicare la rotta, possibili pericoli, condizioni del tempo, ecc. la sua imprescindibile importanza per la sicurezza in mare risultò evidente solo dopo la tragedia del Titanic (proprio come dover avere a bordo un numero di scialuppe sufficiente per mettere in salvo tutti i passeggeri…) tanto che da quel momento in poi le navi furono obbligate a tenere acceso un apparato “wireless” (e successivamente radio) 24 ore su 24. Lo stesso segnale SOS (una semplice sequenza di segnali Morse: tre punti, tre linee, tre punti) era un segnale di soccorso poco conosciuto e cominciò a diffondersi dopo il naufragio del Titanic, grazie al quale fu “reso famoso”.
Sia sufficiente pensare che i due marconisti del Titanic non erano impiegati della compagnia navale, bensì della azienda di Marconi. Nonostante collaborassero con il capitano, fornendogli – tra l’altro – avvisi della presenza di iceberg inviati da altre imbarcazioni, il loro compito principale era inviare “marconigrammi” dei passeggeri più facoltosi che mandavano saluti e baci a parenti ed amici sulla terraferma. Un po’ come quando si andava all’estero le prime volte con il cellulare e si voleva provare l’emozione di mandare un sms agli amici rimasti a casa.
Così, la famosa sera della collisione con l’iceberg, il marconista del Titanic, Jack Phillips, era al lavoro per inviare numerosi “marconigrammi” raccolti durante il giorno. Erano circa le 23.30 ed il destino del Titanic si stava per compiere non solo sulle acque dell’Oceano, ma anche nella sala del Marconi wireless…
Il “telegrafo senza fili” non era ancora perfetto e, intorno alle 23, i segnali del Titanic cominciarono ad interferire con quelli di una nave vicina, il “Californian”, il cui marconista Evans stava comunicando che erano fermi e circondati dagli iceberg. Ma Phillips era impegnato e rispose bruscamente ad Evans: “Stai zitto e lasciami lavorare!”. Evans, forse indispettito, spense il suo Marconi wireless e se ne andò a dormire…
Alle 23.40 il Titanic si scontrò con un iceberg. Poco dopo la mezzanotte, quando il capitano Smith si rese conto che nel giro di un paio d’ore la nave sarebbe colata a picco, disse ai due marconisti di chiedere aiuto a tutte le navi possibili nei dintorni. Il “Californian” era a solo un’ora di distanza, ma il suo Marconi wireless era spento…
Una scialuppa con alcuni superstiti del Titanic fotografata dal "Carpathia" la mattina del 15 aprile 1912
Chi era rimasto sveglio era invece il marconista del “Carpathia”, Cottam. Stava già slacciandosi le scarpe per andare a dormire, quando ricevette l’SOS del Titanic. Immediatamente avvertì il suo capitano che ordinò di fare rotta a tutta velocità verso il luogo in cui il Titanic stava affondando. Il “Carpathia” era la nave più vicina, ma distava quattro ore di navigazione…I conti sono presto fatti: il Titanic sarebbe affondato nel giro di un paio d’ore, aveva a bordo meno della metà delle scialuppe necessarie per salvare tutti i suoi passeggeri e, nelle acque gelide del nord Atlantico, una persona può sopravvivere non più di una ventina di minuti…
Il marconigramma inviato dal Carpathia il 18 aprile 1912 da un superstite del Titanic, Philip Mock, a suo cognato Paul Schabert avvertendolo che lui e la sorella, la signora Schabert sono salvi. Il testo dice: "Both safe on Carpathia, notify Germany (dove vivevano i genitori dei Mock, NdA)"
Il “Carpathia” giunse sul luogo dell’affondamento del Titanic alle prime luci dell’alba, intorno alle 4 di mattina del 15 aprile 1912, dopo un viaggio disperato e a tutta velocità con il terrore di scontrarsi con uno dei numerosi iceberg che galleggiavano nella zona (“l’iceberg del Titanic” non era un unico iceberg solo nell’Oceano, ma uno dei tanti in quell’area quella notte). Fece salire a bordo tutti i 710 sopravvissuti (il numero esatto non è tuttavia chiaro) che andavano alla deriva senza sapere cosa fare, infreddoliti e sotto shock sulle poche scialuppe che erano state calate dal Titanic qualche ora prima. Tre giorni dopo, la mattina del 18 aprile, il “Carpathia” attraccò al molo 54 di Manhattan. Tra le persone che accolsero i superstiti in una scena tragica, tra il sollievo dei parenti che riconoscevano i loro cari e quelli che invece non li trovavano, c’era anche Guglielmo Marconi che si trovava in quei giorni a New York.
La tragedia del Titanic con la sua enorme eco, rese chiara l’importanza estrema e vitale del telegrafo senza fili: fu grazie all’invenzione di Marconi che 710 passeggeri poterono essere salvati e tutti i 2224 passeggeri avrebbero potuto esserlo se fosse stato possibile comunicare con il “Californian”. Pochi giorni dopo, i superstiti del Titanic sfilarono per le strade di New York per consegnare a Marconi una targa d’oro come simbolo della loro riconoscenza. Il bolognese dichiarò commosso: “Vale la pena di aver vissuto per aver dato a questa gente la possibilità di essere salvata”.