Massimo Pizzoglio per il Simplicissimus
L’ultimo motivo di conferma e di sconforto è il caso Ilva a Taranto: la Procura indaga sui danni ambientali dell’azienda siderurgica e la città si ribella.
Non ai proprietari di questa fabbrica della morte che se ne sono sempre fregati della salute del pianeta, ma contro la magistratura che vorrebbe quanto meno ridurre i danni per la salute della comunità.
Una non piccola comunità, quella tarantina, circa duecentomila gli abitanti potenzialmente a rischio e nemmeno piccola la porzione che sarebbe colpita dal provvedimento di arresto parziale della produzione, tra quattromila e diecimila dipendenti (lo “spread” non è piccolo, ma le fonti e i dati sono molti e tutti contrastanti).
La produzione siderurgica non è famosa per la scarsità di emissioni, come testimonia il colore delle case nei pressi di qualunque fonderia nel mondo, ma se a questo si unisce una discreta disinvoltura della proprietà, una abbondante, e naturalmente sospetta, lentezza delle istituzioni e una (ehm!) carente nebulosità dei controlli, si ottiene un quadro agghiacciante della situazione sanitaria della città dei due mari.
E qui diventa evidente la tecnica applicata da quasi tutti gli industriali italiani (e non solo) nel caso di produzioni potenzialmente nocive: far crescere la dimensione del singolo stabilimento finchè è troppo grosso per poter essere chiuso e si scarica sullo Stato il costo sociale del danno ambientale e, potendo, anche le spese di messa in sicurezza e bonifica.
Tutto ciò con la complicità (benestare è la parola elegante usata di solito , visto il contesto quanto mai ossimorica) di parte del sindacato e dei governi che si sono alternati negli ultimi vent’anni.
Le dichiarazioni di affetto dei rappresentanti Cisl nei confronti della famiglia Riva sono addirittura commoventi e anche le esternazioni del ministro dell’ambiente Cleany (un nome, una garanzia!) appaiono più come una minaccia agli inquirenti che una rassicurazione alla popolazione.
Popolazione che, tra la minaccia del cancro (su cui l’Arpa traccheggia, ma la Asl no) e la certezza della disoccupazione, con fatalismo tipicamente italico sostiene l’azienda.
Così i Riva dimostrano di aver fatto bingo.
Perchè questa è la peggiore delle conseguenze del degrado morale e culturale del nostro paese negli ultimi anni: aver dato la stura alla manica di “imprenditori” truffaldini e ciarlatani che in troppa parte costellano il panorama industriale italiano.
Personaggi come Marchionne, i Riva appunto, i Berlusconi, Tanzi, Cragnotti… giusto i primi che mi vengono in mente.
Figuri come i Rossignolo (giusto per citare un esempio recente) che estorcono soldi nostri per giocare a Monopoli e quando perdono fanno la faccina stupita.
Ceffi da galera che ne hanno combinate più di Bertoldo in Francia, ma che riescono sempre a trovare un amministratore pubblico che ci casca.
E alcuni di questi nomi sono ancora più brucianti, perchè iniziarono come industriali capaci, vedi Tanzi, e poi si persero nel marasma dell’industria-finanza, nel popolo dei furbetti del quartierino, degli “imprenditori-prestati-alla-politica-ma-regalati-alla-mafia”.
Il caso di Mandara è esemplare: ricordo benissimo quando inaugurarono il negozio-boutique nel centro di Milano, pochi anni fa, con tutto il mondo dei piazzaffarini che faceva la coda per comprare le “mozzarelle più buone del mondo” dal re delle bufale. Appunto!
Latte che arrivava da non si sa dove, bufali che brucano su campi inquinati da qualsiasi cosa, igiene optional, camorra omaggio…
E’ vero che la salute non è mai stato il rovello degli industriali dai tempi della rivoluzione omonima, ma questi livelli di sfacciataggine sono inquietanti.
E il silenzio-assenso delle maestranze, o come a Taranto neppure tanto silenzioso, indica chiaramente che il degrado, come un cancro, ha già fatto gran parte del suo lavoro sul tessuto sociale, stramandolo e sfilacciandolo in nome del “posto ad ogni costo”.
Come direbbe l’abusatissimo Berthold: sfortunato il popolo che deve scegliere se morire di cancro o morire di fame!