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IMMAGIN[aria]: breve storia del mio adattamento all’orrore fotografico del quotidiano

Creato il 24 settembre 2012 da Theartship

La foto mi colpisce se io la tolgo dal suo solito

bla-bla: tecnica, realtà, reportage, arte, ecc.

 Non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il

particolare risalga da solo alla coscienza affettiva.

Roland Barthes

Claudia Balzani. Non ho intenzione di annoiarvi malamente commentando le fotografie dei vostri quotidiani, non ho intenzione di citare eventi storici di cui avete le orecchie e gli occhi pieni.

Non ne ho intenzione ma lo farò.

IMMAGIN[aria]: breve storia del mio adattamento all’orrore fotografico del quotidiano
Ciò che ha portato la primavera araba ad assomigliare ad un autunno improvviso non è di mia competenza diretta, ma il vento freddo che ha portato con sé ricorda tante correnti d’aria che ho vissuto in soli 25 anni ed ancora fatico a commentare: l’apparenza di una libertà che pare aver scatenato ciò che separava la civiltà dal fondamentalismo e l’occupazione friendly (quale occupazione può definirsi friendly?) dall’oppressione sanguinaria. Ciò che voglio invece affrontare di questa notizia è il suo trattamento estetico e le fotografie che ho osservato sulle prime pagine dei quotidiani: un uomo apparentemente sveglio ma frastornato vestito con una fruit bianca e un paio di pantaloni eleganti, sorretti da una cintura che pare di pelle. La maglietta bianca scopre un torace bianco, più pallido dell’incarnato  del soggetto che rimanda al drappo pudico inserito nelle pale d’altare e ricorda l’utilizzo di questo per il trasporto del corpo dei martiri (ma nella fotografia ha perso il suo candido colore iniziale e tende ad un grigio usurato). Non abbiamo davanti a noi la figura di un bracciante o un lavoratore stagionale bensì un uomo che probabilmente ha preso il sole unicamente in viso perché porta camicie o completi. L’immagine mi colpisce per due particolari: il colore violaceo delle labbra pare espandersi dalle medesime verso il viso, come una macchia di colore, tanto da rendere l’espressione del volto particolarmente fastidiosa da fissare, in aggiunta, una ciocca di capelli, nell’immagine non ingigantita delle prime pagine di giornale, inganna tanto da far pensare ad un colpo inferto alla testa mentre in realtà è solo parte della pettinatura che è calata sul volto. L’uomo che lo trasporta, ed è lo stesso che riconosciamo in più fotografie, regge con la bocca un vecchio modello di telefonino mentre tenta, plausibilmente (o forse l’impressione è sbagliata), di portare il corpo lontano dal pericolo. Questa persona ha un tipico abbigliamento che noi, italioti predisposti ad una certa capacità stilistica genetica, ereditata da anni di alta moda, riconosciamo: l’aiutante indossa un’improbabile maglietta di una squadra sportiva calcistica ed un paio di pantaloni che difficilmente si coordinano, si tratta di bermuda verdi a righe bianche abbinati a un’infradito bianca. Svettano in primo e secondo piano le gambe di altri aiutanti, tutte vestono jeans ed i piedi che possiamo scrutare calzano ciabatte di ogni tipo e pantofole: non siamo sicuramente in presenza di un abbigliamento anti sommossa o protettivo. Terminando, noto che la base della fotografia è un pavimento in semplici mattoni autobloccanti del tutto identico a quello del mio cortile.

È un’immagine che parla direttamente al nostro inconscio e crea una sorta di “tuttialriparo” immediato: quello che mi accade nell’immediato, dopo una visione di questo tipo, è una ricerca disperata, mi scopro a rovistare tra gli scatoloni, rovescio le buste ed i quaderni, apro i cassetti e le ante degli armadi, sbuffo tra la polvere.

Devo forzatamente trovare qualcosa che mi renda questa visione accettabile. Ricordo nitide le pagine scritte da Susan Sontag riguardo alla prima visione delle fotografie-testimonianza dell’Olocausto: la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Molte immagini hanno cambiato la mia vita: le prime immagini pornografiche nascoste sotto le riviste di gossip dal giornalaio di fiducia, le immagini dei libri di storia sfogliate durante le spiegazioni dell’insegnante, i viaggi della memoria ed il Museo Cervi, i telegiornali ed i quotidiani degli anni di piombo, senza tanti vezzi e pudicizie, le fotografie di guerra e i reportage dell’estrema povertà, i malati di Aids di Nan Goldin. Ciò che ho guadagnato col tempo è un adattamento ed un allenamento della visione: quella t-shirt bianca, quel drappo cinereo, le braccia tese ed il gesto del trasporto segnano il culmine della tensione e dell’incertezza, il dramma si svolge e prosegue mentre l’immagine diventa già statica, prelevata dal flusso come fosse un pesce estratto dal fiume.

Se la fotografia vuole essere un messaggio, ciò che mi dice è duplice e impenetrabile, nonostante questa immagine mi faccia credere di favorirmi nella comprensione, quello che veramente accade è una coscienza estetica ed un distacco emotivo. “Ma le fotografie non spiegano: constatano.”[1] Non so nulla di questa fotografia trasmessa a tutti i media internazionali, questa immagine non sintetizza unicamente la tensione mediorientale e la violenza che ne è alla base, ma ha anche una somiglianza inconscia con Il trasporto del Cristo morto di Raffaello. Il corpo centrale della pala d’altare è di forte impatto drammatico, ed il tema stesso lo è, questo pathos prende vita nello sforzo fisico del trasporto di un corpo pesante e profondamente carnale e terreno. Ho paura delle fotografie perché hanno, alla pari dei quadri, una composizione seducente, tanto – e a mio malgrado – da essere capaci di abbellire ogni cosa. Anche il terrore puro e le sue gesta.


[1] S. Sontag, Sulla fotografia, 2004, Piccola Biblioteca Einaudi, p.98.


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