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Imparare dai migliori – Greenleaf di Flannery O’Connor

Da Marcofre

Dopo un attimo, la signora May riconobbe il toro. Attraversava il pascolo galoppando senza premura, alla sua volta, con un passo allegro, quasi ancheggiante, come se fosse felice di ritrovarla.

Questo qui sopra non è un incipit. È preso dal racconto Greenleaf, racchiuso in “Tutti i racconti” di Flannery O’ Connor (editore Bompiani). Siamo alla conclusione della storia.

C’è questa donna, May, vedova e con due figli che la disprezzano. Uno fa l’intellettuale, l’altro vende polizze ai neri (siamo nel sud degli Stati Uniti, anni ’50). Costei ha questa tenuta dove campano i Greenleaf che dovrebbero aiutarla nella gestione dell’azienda agricola.
Dovrebbero.

La moglie è una che si butta per terra nel bosco, e prega. Lui è il tipico dipendente ottuso. Hanno due figli. E poi c’è appunto questo toro. Lasciamo da parte la storia (da leggere assolutamente, secondo me), perché quello che mi preme è altro.

I bravi autori, qualunque sia il tema che affrontano nel racconto, badano a essere concreti. Spesso questo risultato si ottiene con una scrupolosa attenzione ai dettagli, o meglio, a ciò che ci circonda. Persone, e cose. Non si tratta di vedere, ma di offrire l’essenziale e che questo essenziale, palpiti. Viva.

Chi legge Carver o la O’Connor si rende conto quasi al volo della differenza tra le due scritture. Il primo è attento a ogni parola; taglia, lima e cesella, sembra essere sempre alla ricerca della parola perfetta. Quella che dispiega la giusta quantità di forza.

Anche O’Connor certo, però la scrittrice predilige una forma più compatta; non dico “pesante”, però fa ricorso a una scrittura più estesa perché vivere è un affaraccio. La complessità della vita, delle persone, il dietro le quinte che all’improvviso balza sul palco e rovescia equilibri e abitudini necessita di una lingua adatta.

Se per Carver scrivere è osservare con compassione gli esseri umani barcamenarsi in una vita che sembra troppo grande per le loro piccole forze; per Flannery O’Connor la realtà è un blocco di marmo da cui estrarre il senso. Come faceva Michelangelo con le sue opere. Ma è un senso bislacco, per nulla rassicurante perché scardina le certezze, abbandona l’individuo sulla soglia di una nuova rivelazione, forse.

Come si fa a imparare a scrivere allora? Chi imitare, seguire, o meglio a chi ispirarsi?

Domande sbagliate. La lettura delle opere degli scrittori, oppure la frequentazione delle scuole di scrittura, non consegnano segreti o chiavi per entrare nel mondo della letteratura. Al massimo aiutano a comprendere la posta in gioco, e quali errori evitare.

Il resto lo fa il talento (se c’è).


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