A meno che non vi troviate dentro a qualcosa progettato da Antonio Gaudì, come è capitato a me, a Casa Batllò. Fino a quel momento avevo seguito distrattamente la guida, che ci magnificava le doti del costruttore. Io, in realtà, lo avevo inquadrato come un eccentrico, una specie di curiosità della natura, da conoscere, ma senza dedicarci troppo tempo.
Poi mi ero ritrovato nel forno. O meglio, in quello che avrebbe dovuto essere un forno e, invece, si rivelava come un posto fresco, aerato, naturale, piacevole. Allora i miei sensi si sono risvegliati e ho cominciato a prestare attenzione a ciò che diceva la guida. Gaudì aveva concepito quell’edificio come un organismo vivente, capace di respirare e di auto-regolarsi in modo da risultare piacevole e funzionale. Quelle che sembravano le estrosità di un bambino capriccioso si rivelavano invece soluzioni efficaci a precisi problemi. Soluzioni che lui andava a scovare nel posto più logico: la natura.
"La mia ispirazione? La prendo dall'albero là fuori"
La natura è un immenso laboratorio che, ben prima di noi, ha sperimentato tutti i problemi che può avere un architetto. E, di volta in volta, ha trovato le soluzioni più efficienti. La dimostrazione sta nel semplice fatto che esse evidentemente funzionano, altrimenti non sarebbero arrivate fino a noi. Quindi, secondo Gaudì, bisogna saper cogliere da essa i giusti insegnamenti, senza farci ingannare da quello che ci appare – fallacemente – come “razionale”.
E’ stato lì, in quel sottotetto, lungo l’infilata di archi “catenari” del giro visita, che mi si è aperta la mente. Dopo cinquanta anni passati ad esaltare la perfezione del cervello umano, a vantarne la superiorità non solo verso gli altri esseri viventi ma pure verso le macchine “pensanti” – un computer può essere veramente stupido! – solo allora ho compreso una cosa semplicissima.
La mente umana è perfetta solo ai nostri occhi. In realtà essa ci appare così perché non siamo in grado di giudicarla con un metro diverso. Valuto il mio pensiero usando il mio stesso pensiero. Tipico caso di auto-referenzialità. Siamo abituati a considerare giusto tutto quello che ci appare razionale e che possiamo facilmente intuire. E’ razionale, quindi giusto, costruire una casa a forma di cubo, con ampie superfici lisce, perfettamente levigate, da ricoprire con mattonelle ugualmente lisce, squadrate, tutte perfettamente uguali fra di loro. Ma dove l’avete mai vista un simile cosa in natura? Avete provato a guardare le scaglie di un rettile? Esse sono simili, ma non uguali fra di loro. Ognuna ha la forma e la dimensione che meglio si adatta alla particolare zona del corpo cui è destinata. Esse si fanno armonicamente più grandi o più piccole a seconda dell’utilità che debbono avere. Cambiano gradazione di colore, consistenza e asperità della superficie in base a precise convenienze. Possiamo credere che la natura si diverta a creare una tale diversità per un puro capriccio estetico? La natura è intrinsecamente economa. Non fa nulla che possa essere fatto bene con meno risorse. Se lo fa è perché ha selezionato nel tempo ciò che solo apparentemente è più dispersivo, ma che si rivela, alla lunga, più efficiente.
Essa ha avuto a disposizione milioni e milioni di anni per sperimentare infinite soluzioni, scartando e selezionando fino a trovare il giusto equilibrio.
La nostra mente invece percepisce come razionale la superficie piana, la divisione simmetrica dello spazio, la ripetizione infinita dello stesso modulo. Dobbiamo ricordarci che il nostro cervello è strutturalmente monotasking, che è in grado di collegare razionalmente fra di loro un numero molto limitato di elementi (da a 5, non di più). Queste limitazioni ne condizionano pesantemente le capacità di trovare soluzione a problemi complessi, dove ci sono molte variabili in gioco e gli effetti di un’azione non sono immediatamente percepibili. Io posso facilmente comprendere che produrre mattonelle tutte uguali mi consente di abbattere i costi di produzione (cioè sono in grado di governare i pochi elementi che mi sono vicini) ma mi riesce praticamente impossibile valutare tutte le conseguenze negative (sul manufatto finito, sull’ambiente, sulla vivibilità e sul lato estetico) che questo comporta.
Ho ri-trovato questi ragionamenti quando, recentemente ho cominciato a documentarmi sul “Lean thinking” (Lean Thinking, di James P. Womack e Daniel T. Jones). Ma questa è un’altra storia, per un altro post.