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Imprenditori immigrati e etnobusiness: e l’antropologia?

Creato il 04 settembre 2011 da Davide

L’antropologia culturale è fondata sul paradigma del portare nelle aule accademiche ciò che l’antropologo esperisce nell’altrove etnografico. La mente dell’antropologo era il vettore attraverso il quale costruiva e trasferiva conoscenza culturale globale, dal villaggio all’aula universitaria. “Essere andato là” era il marchio di fabbrica dell’antropologia. Scrive Geertz:

E’ questa capacità che sta alla base d’ogni altro intento dell’etnografia [...]: la capacità di persuadere i lettori che stanno leggendo un resoconto autentico scritto da qualcuno che ha constatato di persona come vanno le cose della vita in un certo luogo, in un certo tempo e presso un certo gruppo. La connessione testuale tra i due lati dell’antropologia: l’essere qui e l’essere là, la costruzione immaginativa di un terreno comune fra coloro a cui si scrive e coloro di cui si scrive [...] è la fons et origo di qualsiasi capacità abbia l’antropologia di convincere qualcuno di qualche cosa – non la teoria, non il metodo e neppure l’aura della cattedra professorale, per quanto importanti questi ultimi possano essere. (Opere e vite, 152-3)

Se lo schema di formazione antropologica è rimasto invariato, la richiesta di antropologia nella nostra società non può incardinarsi su questo paradigma. Mentre gli antropologi raggiungevano le mete più disperse alla periferia del sistema mondo, i nativi percorrevano le rotte inverse e si trasferivano nelle patrie del grande occhio etnografico globale.

Il paradigma dell’anthropology at home poteva essere una possibilità, ma è rimasto fin dall’inizio schiacciato tra l’essere percepito come inferiore (che antropologo sei se non vai lontano?) e la competizione di una sociologia qualitativa e attrezzata che riusciva a mettere a fuoco trasformazioni sociali complesse con sensibilità esperienziale e attenzione ai dettagli.

L’antropologo si trova un pò spiazzato. Se fa lavoro “lontano” viene accusato di neocolonialismo della conoscenza, gli vengono demolite le sudate etnografie con fucilate postmoderne e la sua autorità autoriale (a casa) e operativa (nell’altrove) raggiungono i livelli più bassi in tutta la storia della disciplina. Se fa lavoro “at home” trova una sociologia teoricamente attrezzata e strutturata e comincia a ripiegarsi nella critica metodologica sulla difficoltà di fare ricerca essendo al contempo studioso e nativo. Un dramma.

Essere antropologi oggi non è facile. Ma l’antropologia dà anche degli strumenti utili per osservare l’evoluzione dell’uomo e della società da diversi punti di vista. Dà, diciamo, quella mobilità mentale che a volte rende un pò caotici, ma spesso capaci di individuare e sviluppare nuovi punti di vista sulla realtà.

Ma cosa succede qui da noi?

Se generazioni di antropologi hanno avuto esperienza di una mobilità centro –> periferia, generazioni di nativi stanno avendo l’esperienza della mobilità periferia –> centro. Sono i nuovi cittadini, gli immigrati, gli extracomunitari o chiamiamoli come vogliamo. Loro insomma. La storia dell’immigrazione in Italia porta ancora oggi a catalogare chiunque provenga da altri Paesi secondo due direttrici principali: criminalità e emarginazione.

La prima opzione interessa precise categorie di immigrati che balzano agli onori della cronaca in situazioni delinquenziali e illegali, spesso in condizioni di clandestinità. Il trattamento da riservar loro è, formalmente, l’isolamento dalla società civile affinchè possano essere rieducati nella patrie galere.

La seconda opzione interessa altre categorie di immigrati che balzano agli onori delle cronache perchè assolutamente bisognosi di cure e di assistenza, mettendo in moto un sistema assistenziale che coinvolge un numero impressionante di risorse umane, economiche e ideologiche. Una megamacchina dell’assistenza all’immigrato bisognoso.

Queste le due risposte che la nostra società, con la proprie percezioni culturalmente costruite, emette in maniera quasi pavloviana di fronte al fenomeno dell’immigrazione.

Pochissimi si accorgono che questi due gruppi di immigrati, ovviamente, non esauriscono l’intero universo dell’immigrazione italiana. Anzi. Restano fuori le persone che provengono da altri paesi e che, con un esplicito e rischioso progetto migratorio personale, decidono di immigrare nel nostro paese per trovare, al di fuori delle patrie galere e delle mense Caritas, condizioni di vita migliori per sè e per i propri cari attraverso il lavoro.

Sento ancora oggi, frequentando casualmente degli anziani che passano le loro giornate nei bar delle piazze di provincia, affermare “Hai visto, ha anche il cellulare!” riferendosi a qualche immigrato che magari passeggia per la piazza con l’apparecchio appoggiato all’orecchio…il connubio immigrato = povero derelitto è duro a morire. C’è poco da fare: se sei partito da lontano per venire qua è perchè eri povero, e quindi devi essere povero anche qua. Se ti sei arricchito….chissà come hai fatto! Pregiudizi diffusi.

Diffusi e sbagliati, perchè sempre più immigrati diventano imprenditori. Anche nei commenti dei dati nei documenti delle Camere di Commercio pare di percepire dello stupore tra le righe dei commenti e delle intepretazioni correnti. La nostra società sta cambiando ad un ritmo vertiginoso e ormai sono più di 190 mila le imprese con titolare immigrato, e crescono a percentuali rilevanti ogni anno. Non clandestini criminali da rinchiudere, non poveri bisognosi da assistere, ma persone che si danno da fare elaborando un progetto, reperendo capitale di rischio e decidendo di creare valore aggiunto con la loro iniziativa nel nostro paese.

Questi nuovi cittadini vivono ai confini di tre universi culturali: quello di provenienza, quello di accoglienza, e quel sistema culturale peculiare che serve per poter sviluppare una inziativa imprenditoriale. Cultura d’origine, cultura d’arrivo e cultura di impresa devono integrarsi affinchè il progetto di vita sia solido ed efficace e non soggetto a  eccessive vulnerabilità.

E l’antropologia?

Gli antropologi culturali non sembrano essere ancora consapevoli di quando la loro formazione possa essere opportuna per creare delle condizioni favorevoli a questa particolare categoria di immigrati. Gli antropologi avrebbero dei vantaggi differenziali rispetto ad altri professionisti: possono avere una esperienza e una conoscenza di prima mano delle cultura di provenienza degli immigrati, sapendo bene “come vivevano prima di venire qui“; posseggono una conoscenza dettagliata dei meccanismi tipici della cultura di arrivo, cioè la propria, qualora riescano a riflettere su di essa in maniera disincantata (può essere utile la prospettiva at home); inoltre, hanno gli strumenti per mettere a fuoco le dinamiche dell’incontro tra culture in chiave operativa, con servizi di mediazione, formazione e informazione. Serve investire in strumenti di empowerment per chi vuole costruirsi una vita in Italia, non accoglierlo attraverso meccanismi di assistenzialismo regressivo.

L’antropologo applicato può diventare un interlocutore chiave per la promozione e lo sviluppo dell’imprenditorialità immigrata in Italia. Possiede capacità di visione e di analisi culturale, ma deve probabilmente mettere a fuoco le dinamiche del mondo del lavoro, le peculiarità del fare impresa in Italia, le diverse vocazioni etniche dei vari gruppi e le loro preferenze, le esigenze e le difficoltà reali di chi da immigrato vuole diventare imprenditore, che non sono solo burocratiche ma anche di carattere formativo, comunicativo e operativo. Si tratta inoltre di analizzare sia l’imprenditorialità immigrata in senso generale che il cosiddetto etnobusiness, ossia le attività che hanno come target specifico l’etnicità e la transculturalità.

Lavorando con i nuovi cittadini imprenditori, l’antropologo può diventare un facilitatore e promotore di integrazione umana, crescita economica e benessere sociale. Magari sostenendo qualche immigrato criminale, o povero bisognoso, ad intraprendere la stimolante avventura di diventare imprenditori, lontano dalle rieducazioni e dall’assistenzialismo di Stato. Il tutto senza dover andare da nessuna parte, visto che in nativi (in carne, ossa e idee, non rappresentati etnograficamente) sono arrivati qua, a casa sua.

Alcuni documenti guardare più in profondità questa realtà solida ma ancora misconosciuta dai media e dalla società civile:

Rapporto Cerved (articolo del Corriere)

AIPEL Lombardia

Isfol

Immigrazione in Veneto 2011


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