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Impronte di follia

Creato il 17 marzo 2012 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su marzo 17, 2012

di Elisabetta Bordieri

Presi il treno al volo e, in una vita incessantemente in ritardo fin dalla nascita postmatura, non potevo fare altrimenti. Ero una trenista convinta, riuscivo a salire su un treno anche per un tratto di pochissimi chilometri. Non ero una pendolare né una appassionata di paesaggi e panorami, piuttosto era solo un’esigenza congenita di vedere immagini schizzare via in sequenza senza avere il tempo materiale di memorizzarle. Un modo devastante di allenare la mia mente a far tornare a galla ricordi persi, uno stillicidio a cui non potevo e non volevo sottrarmi, un sistema tutto mio di affrontare il passato per poter vivere il presente. In un mondo votato alla psicanalisi, il treno era diventato il mio analista. In un mondo infestato da rumorosi social network, il treno era il posto migliore dove frequentare gente che entrava nella mia vita in punta di piedi con uno sguardo o un accenno di saluto. In un mondo urlato, la delicatezza della penombra di un viaggio in treno era avvolgente come uno stordimento.
E così fu anche quel pomeriggio fino a che, subito dopo di me, non salì anche lui. Nello scompartimento vuoto me lo trovai seduto di fronte, concentrato su se stesso, occhi bassi fissi sulle sue cose, stralci di fogli, forse pezzi di vita, penna in mano. Mi piaceva credere che fosse uno scrittore, chissà, ma poi realizzai che magari era solo uno che scriveva, una bella differenza, pensai, e pure senza computer, decisamente antico. E lo dimenticai in fretta perché il treno andava che era una meraviglia, senza fermate, senza scossoni, sembrava di essere dentro un film senza sonoro, solo i miei ricordi facevano un rumore infernale, come quello di un anno prima. Avevo preso il treno quel pomeriggio solo per cercare di farlo riaffiorare. Ricordavo come una folata di vento, di quelle che sanno cambiare il corso della storia, l’avevo sentita dietro alle spalle che bussava, come la netta sensazione di qualcuno lì accanto, quasi il desiderio di girarmi, una strana sensazione e niente altro.
Mentre rincorrevo quel pensiero, un “Piacere!” diretto a me mi costrinse a rallentare. Era lui, dopo circa un’ora di viaggio in totale silenzio e indifferenza.
“Salve…” risposi, solo educata e nulla più.
“-Salve…- un saluto fuggevole, carico di imbarazzo, non detto ma gettato lì”
Esattamente così, pensai “Scusi, ero sovrappensiero”
“Su quale?”
“Su quale cosa?”
“Su quale pensiero era sopra?”
Come spiegarglielo? “Ah, no niente, ma vedo che sta scrivendo, è per lavoro?” così tanto per dire una cosa qualsiasi.
“Si, si per lavoro, e lei dove va?”
Era il caso di azzardare con risposte meno evasive e spaventarlo. “Da nessuna parte, io salgo sui treni e vado e penso”
“Come fossero puntini e sussurri?”
Non lo spaventai.
“???”
“I puntini prima delle parole o dei pensieri lasciano spazio ai sussurri, come fossero schegge di colori”
“Ma lei è un filosofo?”
Il bisogno di filosofare nasce dalla meraviglia, dice Aristotele, e dalla follia, dico io”
E, abbassati gli occhi, tornò ai suoi fogli e io alla mia ricerca. La follia, si ecco, ora qualcosa riaffiorava. La folata di vento che bussava era calda ed era folle, un’afa micidiale non mi dava tregua e un respiro, il mio, affaticato come non mai, cercava aria pulita sopra cui sdraiarsi. E io, distesa sul mio letto in una immobilità compulsiva e fluttuante, non capivo come afa e vento, quella notte, insieme potessero convivere. Ancora la sensazione di qualcuno o forse qualcosa vicino me e poi il suono lontano di quelle strane parole “solo che ora so cosa non sei” e di nuovo il nulla.
“Biglietti per favore”
Questo era lo sfinimento ma anche il vigore, essere ad un passo dalla soluzione e poi sentirsi estirpati improvvisamente con uno strattone e anche un controllore sapeva riuscirci perfettamente. Fuori un tempo da lupi e orsi sembrava volesse entrare dentro il treno e io l’avrei accolto a braccia aperte. Bello il tempo così, minaccioso, scuro, con promesse di tempeste e fantasmi, sapeva regalarmi quello che una giornata di sole non potrebbe e saprebbe mai.
“Vede la pioggia?” lui
“Non piove ancora” io
“Pioverà” convinto
“Si, si certo pioverà” annoiata
Ah la donna! Solo il diavolo sa cos’è!
“Lo pensa davvero?”
“Non lo penso io, lo pensa Michajlovič”
“Mihajlović? Ma non è un calciatore o qualcosa di simile?”
“No, Fëdor Michajlovič Dostoevskij”
“Ah”
“Credo si scriva e si pronunci diversamente, uno è russo, l’altro credo sia serbo. Appassionata di calcio?”
“No, si figuri, solo documentata”
“Allora come documento conoscerà anche Dostoevskij”
“Si, qualcosa ho letto, ma non mi prende, non lo sento e lui non sente me”
“Beh, provi a chiamarlo più forte nel prossimo libro, no?” sorrise
“E in ogni caso preferisco le donne che mancano e sanno mancare e fare più male
“Si, conosco Ligabue”
“Appassionato di musica o di pittura?” sorrisi anch’io.
Un ultimo incontro di sguardi e nulla più, solo un nuovo silenzio che tornò in mezzo a noi. E iniziò a piovere davvero, ma non era pioggia, era una tormenta di vento e acqua, una bufera che sembrava spazzare via il treno. Ora ricordo che anche quella notte iniziò a piovere e l’afa lasciò spazio a quella solitaria folata, ecco perché l’afa e poi il vento. “Solo che ora so cosa non sei”, parole martellanti ancora senza senso. Se non fossi una che si attacca all’idea delle persone e delle cose forse lascerei stare e soprattutto non salirei sui treni per cercare di evocare folgorazioni lontane.
“Non le fa effetto parlare con una persona e nel contempo sapere che non la vedrà mai più?” lui
“Non saprei” io
“Io so”
“E cosa sa?”
“Che alcune persone lasciano impronte ricalcabili”
“Ricalcabili? Citazione sua o copiata?”
“Mia”
“E che ci fa con un’impronta ricalcabile?”
“La ripasso”
“Si ripassa una lezione, un compito a casa”
“E anche un’impronta”
“E dopo che l’ha ripassata?”
“Entro dentro la persona. Con tutte le scarpe, appunto” sorrise ancora.
Un bel sorriso ora che lo guardavo davvero, una bocca chiara ben disegnata, capelli lunghi raccolti dietro che incorniciavano due occhi armoniosamente scuri, una bellezza strana, confusa, morbida.
Un’impronta, come un’impronta dovevo ricalcare la frase di quella notte, solo così avrei potuto entrarci dentro e ricordare.
“Ma se la persona, come diceva, poi non la rivede più?”
“Ecco allora so che posso solo ricordare, e scrivere mi aiuta a farlo”
“Mi ha detto che stava scrivendo per lavoro”
“Infatti”
“Il suo lavoro è scrivere per ricordare?”
“Uno scrittore fa anche questo”
“Non credevo che essere scrittore fosse un mestiere, ma piuttosto una passione”
“Sua o copiata?”
“Mia”
Un bravo scrittore non si riconosce tanto da quello che pubblica quanto da quello che butta nel cestino della carta. Copiata. Gabriel Garcia Marquez. E nel cestino della carta c’è un sacco di passione. Mia”
“Questi fogli finiranno nel cestino del treno prima che lei scenda?”
“Questi fogli parlano di oggi, di me e anche di lei. No, non ci finiranno”
“Fogli senza passione dunque”
“Fogli senza mestiere direi, e la prossima fermata è la mia”
Non ci sarebbero state impronte da ricalcare, solo impronte vuote, come vuoto sarebbe rimasto il mio ricordo, e vuota quella frase. Senza una motivazione tentai il tutto per tutto in un modo assurdo e casuale.
“Solo che ora so cosa non sei” dissi imbarazzata
“E cosa non sono?” rispose senza imbarazzo
“Uno che rimane”
“Non mi vengono citazioni in proposito né mie né di altri”
“Cosa hai scritto su quei fogli?”
“Tieni se vuoi, leggili pure, a me non servono più. Io ora so cosa invece sei tu”
Si alzò e in due secondi uscì dallo scompartimento e non lo vidi più. Dopo tutto avevo visto giusto, era uno che non rimaneva.
Quando il treno ripartì mi ritrovai con quei fogli in mano, non sapevo più se volevo leggerli davvero oppure no. La pioggia incessante continuava a cadere, sarei scesa anch’io poco dopo per poi rifare la stessa tratta al contrario. Alla fine mi decisi e guardai. Erano quattro fogli, due senza scritte con solo con qualche scarabocchio qua e là, e due bianchi, completamente bianchi. “Leggili pure” ma cosa avrei mai dovuto leggere? “Ora invece so cosa sei tu” e cos’ero dunque io, uno scarabocchio, un foglio bianco? “E nel cestino della carta c’è un sacco di passione” non c’era invece solo una grande rabbia? Li accartocciai in fretta, li infilai con forza nel cestino sotto il finestrino già pieno di robaccia e mi preparai per scendere alla stazione successiva. Un viaggio senza riuscita, e con più confusione di prima. Bagnata fradicia, salii sul treno che mi riportava da dove ero venuta, non so nemmeno se chiamarla casa. Ripensavo a lui, alle sue parole che mi avevano aiutato a rievocare, a Dostoevskij, alla pioggia, ai fogli buttati via, a quella notte ormai persa per sempre. Il viaggio di ritorno finì in un attimo. Stazione, casa, letto, lo stesso di quella notte, lo stesso caldo, la stessa afa, lo stesso vento ma in un’altra estate e in un’altra vita evidentemente. Cercai riparo tra le palpebre chiuse, sapendo che non ci sono fallimenti ma solo sogni sbagliati e io ne avevo in quantità sorprendenti. Sapevano cosa non ero, e avrebbero continuato a bussare a lungo alle mie spalle per cercare di saperlo. E i sogni non si stancano. La mattina seguente mi avrebbe trovato fuori di testa e decisi che non doveva trovarmi. Alle prime luci sarebbe partito il prossimo treno tra pioggia e impronte di follia.


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