La vendetta assume le sembianze più disparate. Un paio di agenzie fa lavoravo in una società che aveva più sedi su piazza della Repubblica, avete presente no? Un giorno dovevo portare un Mocio Vileda completo di secchio da un altro ufficio al mio, si era allagato il bagno ed ero andato a chiedere strumentazione di rinforzo. Insomma, sto attraversando una piazza piena di uffici e studi di professionisti con tutti i professionisti e i loro clienti che l’attraversano in lungo in largo proprio come me, che però ho in mano un inequivocabile strumento per lavori tutt’altro che di concetto quando il caso vuole che lo incontro lì, appena sceso da un macchinone e tutto elegante con un completo che io nemmeno al mio matrimonio. Mi guarda e sa chi sono perché io lo guardo sapendo di chi si tratta.
Secondo o terzo rampollo di una famiglia della ricca borghesia della città dalla quale sono emigrato per Milano, quelle i cui cognomi fanno anche parte della toponomastica locale e i cui rami sfornano notai o avvocati o neurochirurghi e i figli dei figli ne combinano di ogni fino alla laurea in legge o in medicina o in economia o in ingegneria dopodiché improvvisamente siedono alla destra del padre per scivolare completamente privi di qualunque attrito verso una carriera di successo come piattaforma per una vita di agi. Ma nel caso del giovane professionista in questione, che ha il classico nomignolo che altrove lo si dà a un animale domestico, tra me e lui c’è una specie di questione privata perché almeno un paio di lustri prima mi ero trovato a festeggiare non so cosa a casa sua con altri imbucati come me che si erano aggregati ad alcune ragazze trasversali, quelle la cui avvenenza o disponibilità ne giustifica la presenza in qualunque contesto, che invece erano ufficialmente invitate.
E per mettere bene a fuoco lo scenario umano di cui mi circondavo e in cui in fondo potevo considerarmi il meno peggio, mi accompagnavo di comparse con cui il rischio di annoiarsi stando con loro c’era anche nel breve periodo. Uno avrebbe passato il tempo a inventare parodie di canzoni, quel divertimento di cambiare i testi con altre parole mantenendo la stessa metrica. Un tipo di gioco che faceva sin dalle elementari e lo sapevo bene perché era da allora che lo conoscevo e saltuariamente lo frequentavo. Il tormentone della serata era “Sapore di mare”, che nello speciale diventava una cosa tipo “il tempo è dei torni/che impastano tigri” e giù a ridere. Ma poteva anche andare peggio. L’altro era più sul versante delle distrazioni tradizionali, quelle illegali da sbriciolare nel tabacco e fumare in compagnia. La prima tappa di ogni fine-settimana consisteva nel fare la posta al pusher fuori dal suo bar di smercio, in macchina. E se non si faceva vedere non ci si muoveva di lì fino a che qualcuno non trovava una soluzione alternativa. Proprio durante una di quelle eterne attese, quella più estenuante che era culminata con frasi del tipo “dovremmo passare all’eroina perché è più facile da trovare” c’erano state un paio di defezioni da quel gruppo di frequentazione temporanea, tra cui la mia.
Comunque proprio loro avevano scoperto, all’ultimo piano della villa di cui eravamo ospiti indesiderati, la stanza dei giochi di non so quale nipotino, che nell’immediato era diventata una pista per autoscontri tra tricicli e altri mezzi a pedali guidati appunto dalle persone con le quali poi sono stato immeritatamente accusato di aver contribuito agli atti vandalici scoperti la mattina seguente, compreso il rinvenimento di litri di Coca Cola in un vaso porta ombrelli e gesta più demenziali come lo scambio di dischi dalle loro copertine, oltre alla distruzione dei tricicli e degli altri mezzi a pedali di cui sopra. Si era sparsa la voce che eravamo stati noi, forse le ragazze trasversali avendo compreso quale scelta di campo fosse più proficua – d’altronde tra una manciata di inconcludenti cannaioli e un gruppo di facoltosi aspiranti personalità di successo ma nell’immediato altrettanto cannaioli voi da quale parte scegliereste di stare? – avevano cantato e nel mucchio anche io ero stato investito delle mie responsabilità. Ma, e caro il mio concittadino ora avvocato di successo se leggi queste righe sappi che è tutto vero, io non avevo fatto nulla se non la cosa più demenziale, ovvero spostare il vinile dei Deep Purple dentro la copertina di Santa Esmeralda e viceversa. Tutto qui. Ma, andata come è andata, l’avermi visto con un Mocio Vileda in mano attraversare una piazza di Milano come un qualunque addetto alle pulizie dev’essere già stata una soddisfazione sufficiente per te, l’ennesima conferma che le cose al mondo funzionano proprio così. Le persone brillanti appartenenti a famiglie brillanti sono destinate a una vita brillante, i falliti con famiglie di falliti alle spalle ad asciugare i bagni allagati degli uffici nei sottoscala.