Akab fornisce la sua risposta all’ancestrale domanda: “C’è vita dopo la morte?”
Il mio medico è stato piuttosto diretto: “Si accomodi”.
E non era tutto.
“Adenocarcinoma esofageo. È un tumore piuttosto raro”.
“Ottimo, almeno posso rivenderlo”.
“Non le mentirò, la difficoltà a deglutire è solo l’inizio. Il dolore toracico si diffonderà alla schiena, la tosse e i bruciori saranno incessanti, incorrerà in un’anemia causata dal progressivo sanguinamento, potrebbe morire soffocato dal suo stesso vomito. Non credo che sopravvivrà per più di due anni a partire da ora”.
“E se la facessi scopare con mia moglie?”
“Guardi il lato positivo. Arrivederci”.
Un cancro all’esofago! Con tutte le parti del corpo che ho.
Perché proprio io? Non poteva capitare, chessò, ai miei figli? Adolescenti consumati da patologiche compulsioni sessuali, ancora troppo giovani per lavorare e rendersi utili. Chi se ne dispiacerebbe?
Alla notizia, mia moglie è scoppiata in lacrime: “Chi pagherà il mutuo?”
Passa il tempo piangendo al telefono con la madre e le sorelle: “Adesso come faremo? Avevamo progettato di andare in crociera!”.
E giù lacrime.
Ai ragazzi non lo abbiamo detto. Non voglio dare loro soddisfazione. E in ogni caso, voglio che conservino un buon ricordo di me per quando saranno grandi e staranno ancora pagando i miei debiti.
In ufficio ho deciso di mantenere un basso profilo. Sono andato dal mio capo e gli ho detto:
“Toni”.
Lui si chiama Alfredo.
“Toni, credo che sarebbe più proficuo se impiegassi le mie giornate scopandomi tua figlia”. Con un pennarello ho disegnato un cazzo chilometrico sulla foto della figlia in questione che Alfredo tiene sulla scrivania.
Bella bambina, tra l’altro.
A quel punto mi è sembrato opportuno mantenere un certo tenore. Sono salito in piedi sulla scrivania: sentivo lo scricchiolio di plastica della tastiera che cedeva sotto le mie suole, e vedevo le impronte delle mie scarpe sui documenti che stavo calpestando. Mi sono slacciato i pantaloni e ho cagato proprio lì.
Uno stronzo scuro e molle. Non liquido, ma neanche sufficientemente compatto da mantenere la forma al momento dell’impatto con le sessantotto pagine del bilancio consuntivo.
Alfredo, il mio capo, ha fissato impietrito quella massa maleodorante per venti secondi buoni.
Mi sono rimesso i pantaloni e sono sceso con un salto scomposto. Mentre ero lì che tentavo di staccarmi dal culo le mutande totalmente inzaccherate, mi sono accorto che Alfredo stava piangendo. Sussultava a capo basso sconvolto da singhiozzi sommessi.
È stato a quel punto che è salito sulla scrivania anche lui e l’ha inondata con uno schizzo abbondante di diarrea. Poi si è sdraiato in tutta quella merda rivoltandosi e spalmandola ovunque, urlando: “Giovanni, Giovanni!”
Io mi chiamo Diego.
“Giovanni”.
L’intensità dell’evento mi ha fatto capire qual è il modo migliore di impiegare il poco tempo che mi rimane da vivere: cagando sulle scrivanie.
Ma anche facendo tutto quello che ho sempre desiderato e che mi sono sempre proibito: vuoi perché temevo il giudizio degli altri, vuoi perché non avevo mai abbastanza soldi, vuoi perché non avevo un tumore all’esofago.
Così ho stilato una lista delle cose che vorrei assolutamente fare prima di morire di cancro: