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Creato il 24 aprile 2015 da Gaia

Io non ho scritto che la migrazione è sempre sbagliata, né lo penso. Il fatto che ci sia sempre stata è ininfluente: anche la guerra, la schiavitù o lo stupro ci sono sempre stati, ma non per questo dobbiamo approvarli. Piuttosto, non vedo motivi per sostenere che la migrazione sia sempre una cosa sbagliata. Si tratta di un fatto umano che come tanti altri ha lati positivi e lati negativi, a seconda delle modalità, dei punti di vista e delle circostanze. Siamo arrivati a un punto in cui il pianeta ha ben più esseri umani di quanti può sostenere a lungo termine, per cui qualsiasi migrazione di massa inevitabilmente creerà dei conflitti molto seri. Non ci sono più aree poco popolate in cui il danno migratorio sia arrecato ‘solo’ alla flora e alla fauna, ma non ad altri esseri umani. Ormai qualsiasi spostamento di massa provocherà o un problema di grave sovraffollamento (Europa) o l’allontanamento violento delle popolazioni pre-esistenti (Israele – tra l’altro, perché allora non andiamo a dire ai palestinesi, che giustamente si difendono, che la vita umana è sacra e devono lasciare le loro terre ai coloni israeliani?).

Per inciso io sono tornata in Italia proprio perché sono arrivata alle conclusioni che ho già esposto, e quindi mi sembrava incoerente nel mio caso migrare, ma non sostengo né ho mai sostenuto che qualsiasi migrazione per qualsiasi motivo sia sbagliata.

Riguardo alla vita umana come valore assoluto, io non credo negli assoluti. Ovviamente la vita umana è un valore grandissimo, ma alle volte si tratta di scegliere tra una vita e un’altra, o due gruppi di vite, o la vita di oggi contro la vita di domani, e ci si trova davanti a dilemmi di non facile soluzione. Per esempio: è meglio pagare il riscatto e salvare una persona, incoraggiando futuri sequestri, o rischiare che li rapito venga ucciso? È sbagliato uccidere il nemico che ti attacca? Se qualcuno entra in casa tua armato, puoi sparargli per difenderti? Se fai un blitz per salvare degli ostaggi e qualcuno muore, era meglio se non facevi niente? Eccetera. Si tratta di questioni complesse, che non si possono risolvere facendo appello alla sacralità della vita umana. Se comunque l’obiettivo è salvare vite umane, una soluzione potrebbe essere impedire le partenze bloccandole all’origine e distruggendo i barconi. Rimane però il problema non indifferente di cosa fare con tutte le persone che rimangono in Libia e non possono andare né avanti né indietro.

Bisogna anche ricordare che pace e benessere da un lato, e disperazione dall’altro, non sono così semplici e non sono così statiche. Innanzitutto, non tutti in Europa stanno così bene che possono permettersi di condividere il poco che hanno con qualcun altro, e non tutti i migranti davvero morirebbero tra atroci sofferenze se rimanessero nel loro paese di provenienza. Inoltre, se tu andando in un posto che sta bene contribuisci a far stare quel posto sempre peggio, la tua disperazione vale ancora come giustificazione?

Io non credo che gli italiani, o qualsiasi altra collettività, siano superiori né in sé né quando migrano. Questa favola che gli italiani si raccontano per giustificare la loro ostilità alla migrazione, dicendo che “quando emigravamo noi era diverso”, non ha nessun senso storico. È solo una scusa. Non mi risulta che gli italiani che emigravano si siano mai posti il problema, al di là forse di qualche coscienza individuale, se fossero graditi o meno – né mi risulta che lo facciano ora. Perseguivano i loro interessi ed era un problema del paese ricevente se prenderli o non prenderli.

Non sono nemmeno d’accordo con la risposta: “se vuoi tanto i clandestini, prendili a casa tua.” Ci si esprime anche per indicare una strada alla collettività di cui si fa parte, e non tutto è praticabile individualmente. Io posso volere che i malati di cancro siano curati a spese del servizio sanitario nazionale, e posso essere disposta a pagare anche più tasse per finanziare il trattamento, ma ciò non significa che per coerenza dovrei allestire nel mio salotto una sala per la chemioterapia. Naturalmente, oguno di coloro che vogliono l’accoglienza è effettivamente libero di aiutare i richiedenti asilo in prima persona, e c’è chi lo fa: ho visto gente portare da mangiare ai senzatetto stranieri e agli accampati, ad esempio, e questo è senza dubbio un comportamento coerente. Effettivamente una persona che si esprime per l’accoglienza e poi non fa nulla per contribuire ad essa è un po’ sospetta, ma non per questo in malafede. È anche vero, comunque, che spesso chi non vuole limitare l’immigrazione non è davvero povero né ha prospettive serie di diventarlo a breve termine, per cui può, dalla sua posizione privilegiata, invocare l’accoglienza senza percepire di dover pagare per essa un prezzo molto alto. Un comportamento più coerente sarebbe ridurre la propria impronta ecologica e la propria procreazione, così da far posto per i nuovi arrivi, altrimenti sta solo scaricando la propria ipotetica generosità sulle concrete spalle altrui – magari quelli che non hanno il lavoro né un sussidio e le decine di euro che vengono spese quotidianamente per ciascun profugo le vorrebbero per sé, ad esempio. Ed è difficile dare loro torto, data la piega molto grave che stanno prendendo le cose qui.

L’atto migratorio è un atto egoistico, e l’egoismo non sempre è un male, perché per sopravvivere bisogna anche essere egoisti, ma decidere quale lasciar prevalere in una contrapposizione di egoismi è una scelta complessa. Quelli che dicono che i migranti andrebbero respinti senza se e senza ma dovrebbero porsi il problema di come il loro stile di vita direttamente o indirettamente può causare queste migrazioni; quelli che dicono di accogliere senza se e senza ma devono spiegarmi cosa farebbero se, e succederà se non facciamo nulla, decine di milioni di persone decideranno di immigrare in Europa in pochi anni. Non fermeranno mai nessuno, a costo di distruggere il continente? Questo è morale?

Specifico, dato che nel mio post non era chiaro, che io non penso che la discriminazione quando si tratta di decidere a chi dare per primo lavoro, alloggio, e così via, debba essere basata solo sulla combinazione di nascita e residenza di lungo corso. Se non c’è la minaccia di un’immigrazione massiccia ma solo la presenza di alcuni stranieri qui e lì, queste discriminazioni probabilmente non sono necessarie e potrebbero anche essere inutilmente punitive; inoltre ci sono persone che abitano in un paese che non è il loro da molto tempo, hanno intenzione di restarci e di contribuirvi quanto possono: queste persone dal mio punto di vista possono avere anche più diritti di chi è nato in un paese ma non ha con esso un particolare legame e non ha problemi ad andare a vivere da un’altra parte. Non si tratta di cose su cui è facile legiferare, e infatti le uniche proposte possibili sono di mettere un limite di anni di residenza per accedere ad alcuni servizi o vantaggi: se sei qui da, diciamo, cinque o dieci anni, sei uno di noi. Per esempio, io darei il reddito di cittadinanza ai cittadini residenti e ai residenti di lungo corso, ma non ai cittadini residenti altrove – un po’ come è stato fatto il referendum sull’indipendenza della Scozia. La patria, contrariamente a quanto il nome suggerisce, la puoi anche scegliere, ma è una scelta che richiede di pagare un prezzo.

Ricordo anche che non è assolutamente vero che l’Australia sta limitando l’immigrazione. L’Australia rifiuta alcuni migranti, questo sì, con metodi anche molto duri, ma nonostante questo ne accoglie molti altri e per questo motivo il suo tasso di crescita della popolazione è il più alto tra i principali paesi industrializzati.

Riguardo alla storia dei disperati sui barconi, mi sembra uno di quei luoghi comuni che si ripetono a pappagallo senza pensare a cosa significhino davvero. Io invece vorrei riflettere approfonditamente sulla veridicità di questa convinzione diffusa. La disperazione è una condizione soggettiva per definizione: significa mancanza di speranza. Non c’è un legame unico tra le condizioni di una persona e sua capacità di sperare in un miglioramento, e alle volte ad avere le speranze più grandi sono proprio le persone che si trovano nello stato peggiore. Una guerra o uno sconvolgimento drammatico possono significare finalmente la rottura con lo status quo e la possibilità di costruire un futuro diverso, mentre dall’altro lato ci sono persone che da un punto di vista esterno hanno già molto, o avrebbero la possibilità di rimediare alla propria situazione, ma per carattere o inclinazione individuale perdono la speranza fino addirittura a morirne.

Non nego che molto spesso le condizioni da cui provengono gli immigrati che cercano di arrivare in Europa siano oggettivamente drammatiche. Quello che non è per nulla scontato è che la risposta a queste condizioni drammatiche sia la fuga. Nel corso della storia umana ci sono state reazioni di tutti i tipi ai momenti difficili vissuti da una collettività: per alcuni popoli e momenti storici lo sbocco è la rivolta, la rivoluzione o l’insurrezione; per altri è l’aggressione, per altri ancora l’autoimmolazione, l’unione contro il nemico, una nuova religione, una conversione di massa, una ricostruzione, la ricerca di nuove tecnologie o strategie per risolvere il problemi… la fuga è solo una delle infinite possibilità. Perché allora ci sembra tanto scontato che dalla guerra e dalla difficoltà economica si può solo scappare?

Perché siamo noi i primi. Perché siamo noi i grandi individualisti che quando le cose si mettono male ce ne freghiamo del paese, della comunità, dell’umanità intera, e pensiamo solo a mettere in salvo noi stessi e la mezza dozzina di persone di cui ci importa davvero qualcosa. Noi diamo per scontato che i “disperati” sono in fuga perché non sappiamo immaginare altro che la fuga dalle difficoltà. Ma non solo la fuga non è l’unica possibilità: non è nemmeno un indice di disperazione. I barconi non sono pieni di disperati: sono pieni di speranzosi. Sono pieni straripanti di persone che sperano, che credono, che sono certi di aver trovato la Terra Promessa. Per loro l’Europa è il paradiso, è la pace, è la ricchezza. Alcuni troveranno tutto questo e, finalmente al sicuro, probabilmente passeranno il resto della loro vita nella convinzione di aver fatto la cosa giusta; altri finiranno in fondo al mare, o in qualche campo a lavorare come schiavi, o ammassati in un giardino pubblico con la puzza addosso di interi mesi senza lavarsi. La Terra Promessa non è per tutti.

Io penso che ci sia stato un lungo processo di indottrinazione collettiva per cui interi popoli hanno perso la capacità di immaginarsi diversi, in cui un’infinita sequenza di uomini e donne hanno ripetuto ai loro figli, ai loro amici, a loro stessi la stessa strana propaganda che era entrata nelle loro coscienze: devono andarsene, a casa non c’è speranza per loro, il futuro è altrove. A forza di sentirsi ripetere questo, tutti ci hanno creduto. Altro che Che Guevara, altro che Thomas Sankara. Che esistesse un’altra strada non è stato più nemmeno preso in considerazione. Interi popoli si sono arresi al tanto vituperato Occidente: va bene, avete vinto, adesso dividete il premio.

Da un certo punto di vista, è nobile non voler sbattere la porta in faccia alla speranza altrui. Mi dispiace essere così reiteratamente severa con quella che in fondo è una manifestazione collettiva di generosità nei confronti di chi è meno fortunato. Ma la speranza che noi vogliamo assecondare accogliendo tutti i migranti è una speranza in gran parte malata: basata su un’illusione, predatrice, a suo modo, è la negazione di una speranza ancora più grande, la speranza della parità tra i popoli, la speranza che ognuno possa stare bene nella terra in cui è nato e lasciarla solo se la curiosità o la passione lo portano a incontrarne un’altra e ad amarla o volerla conoscere. La speranza di un mondo in cui non c’è chi parte e chi accoglie, chi ha e chi non ha, ma solo scambi tra pari.

La storia degli immigrati disperati non regge nemmeno alla verifica dei fatti. Quello che sta succedendo in questo momento è diverso dal flusso costante di migrazioni da tutto il mondo che l’Europa ha accolto negli ultimi decenni, questo è vero. Adesso ci sono guerre particolarmente gravi e particolarmente vicine. Al tempo stesso, la storia dei migranti disperati non è una novità: sono anni e anni che la sentiamo ripetere. È mai stata vera? Vi invito a guardare questa tabella Istat sugli stranieri presenti in Italia alla fine del 2012, ordinati per nazionalità. Contate i primi trenta paesi di provenienza degli stranieri. Quanti di questi trenta paesi erano in guerra?

Nessuno.

Si può dire che ci fossero dei conflitti in qualche zona di qualcuno di questi paesi, e probabilmente queste statistiche ufficiali non contano persone presenti clandestinamente del paese, ma rimane il fatto che gli ultimi dati disponibili mostrano che in Italia ci sono svariati milioni di persone di cui ci è stato detto che scappavano dalla guerra e non era vero, che scappavano dalla fame e non era vero, e che volevano semplicemente stare in un posto in cui si viveva meglio e si guadagnava di più, e non sto dicendo che dev’essere proibito avere questo genere di aspirazioni, ma che bisogna semplicemente chiamare le cose con il loro nome. Adesso, mi direte, è diverso. In Siria c’è palesemente una guerra orrenda. La Libia è fuori controllo, l’Afghanistan non trova pace, e così via. Non ripeterò che ci sono donne e uomini che invece di scappare resistono, e il coraggio delle donne in questi paesi è ancora più straordinario. C’è chi non vuole fare l’eroe, e noi come paese decidiamo che ha ragione e che lo vogliamo accogliere. Bene, ma lo spazio è davvero poco: allora forse sarebbe stato saggio, invece di accogliere milioni di profughi economici, lasciare posto solo per i profughi veramente gravi nel caso fosse scoppiata una guerra. Ma noi non potevamo rifiutare tutti i migranti che volevano venire in Italia semplicemente per lavorare, perché allora tutti gli altri paesi in cui erano gli italiani a voler andare a lavorare avrebbero potuto dire: riprendeteveli tutti. Il numero di italiani residenti all’estero è inferiore, ma non di molto, a quello degli stranieri in Italia, altro dato che viene convenientemente dimenticato. Se noi vogliamo che un italiano possa emigrare all’estero per motivi di ambizione personale, di sicuro dobbiamo accettare che un numero se non altro paragonabile faccia altrettanto con noi. E qui si torna alla solita storia: il mondo è pieno. Se non lo fosse, chi è in fuga troverebbe una costa disabitata dagli umani, una vallata impervia, un’isoletta remota, e si stabilirebbe lì, come è stato fatto tante volte. Adesso non si può. Dove vai, devi spostare qualcun altro.


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