Magazine Cinema
Lo screenwriter Paul Haggis, alla terza regia, perde del tutto la strada maestra del suo "cine-dramma" ed esplora il territorio del "thriller-semi-blockbuster" a-problematico e impersonale, mostrando i suoi limiti di regista e facendo emergere il moralismo fiacco della sua discontinua linea poetica.
4,5 su 10
Haggis ci riprova e non ci riesce. Dopo l'esordio Oscar di "Crash", pompato coro dominato dal fatalismo e il più ficcante "Nella Valle di Elah", più doloroso, intriso di un sentimento reale, affine al documentario per l'immediatezza della rappresentazione, il primo vero failure del regista è il remake di un film francese, "Pour Elle" di Fred Cavayé con Vincent Lindon e l'europea Diane Kruger. "The Next Three days" è un pesante e pedante esercizio di stile, nemmeno così smagliante (da notare la bassa credibilità delle scene d'azione, segno che il budget non è al top e che l'inventiva latita e viene sostituita, con scarso successo, da mezzi tecnici ridicoli). E' anche un film reazionario, di giustizia personale, contro una giustizia ufficiale incapace. Beh, bell'assunto, peccato che il risultato sia uno spreco inutile di tempo, di soldi, di attori. E' la sceneggiatura qualunquista da z-movie a dominare, con la sua articolazione irreale, i suoi salti no-sense, le sue lacune, i suoi eccessi. Molto spesso si sottolinea la bravura dell'Haggis sceneggiatore; in realtà, con le dovute eccezioni, vedo nella sua poetica un'accesa tendenza moralistica, per non dire buonista, qualche volta perfetta per un certo contesto, altre volte risibile. La sua visione è ordinaria, il suo copione manicheo, la sua attitudine pomposa, retorica, quasi alla Redford ultima fase per intenderci. La sua è una lotta al "sistema" aperto alla sconfitta, di solito. Uno dei problemi di "The next three days" è che è votato alla vittoria, al chiarimento, alla comprensione, al flasback da ribaltamento e alla spiegazione. In un film che sottende valori importanti come la fiducia, la necessità di articolare la narrazione fino a mostrare la validità di tale fiducia è innegabilmente americana, da cinema vecchio stampo, ma non adatta alla credibilità autoriale di chi la mette in scena. Ed Haggis semplifica e corregge il tiro del passato, con un finale ottimista che fa venire il latte alle ginocchia, oltre a mostrare l'eccesso manicheo dei suoi protagonisti. Non a caso, invece di problematizzare la figura del padre, portato alla violenza, per raggiungere il suo obiettivo di rifondazione della famiglia, la tendenza ideologica e reazionaria adottata porta ad una sorta di giustificazionismo a prescindere. E' qui l'altro errore dello sceneggiatore. La storia diventa una rifondazione, laddove Haggis ha sempre creduto, nelle sue opere precedenti, ad una distruzione. Cambiano i temi, da un film all'altro, ma il passaggio da un democraticismo ad un conservatorismo così eccessivo mostra la scarsa credibilità di chi accetta sfide/remake di dubbia attinenza con il proprio punto di vista. Il moralismo è stata una caratteristica sempre tangibile, con successo o meno, nei copioni di Haggis. Una cosa è affidarsi a Clint, capace di essere rigoroso, con qualche sbavatura di poco conto, un'altra è avere la presunzione di dirigere qualcosa di non affine alla proprita storia. In più, aggiungeteci una scarsa capacità di tenere la direzione di ogni aspetto cinematografico con polso, e il risulato sarà mediocre anche sotto un profilo tecnico, senza l'adrenalina necessaria per un prodotto action (tanto che spesso diventa un telefonato action per la tv più che per il grande schermo). Anche gli attori sono completamente fuori parte. E' strano che il paternalismo di Crowe non faccia breccia, ma la sua unica espressione facciale non giova al personaggio, mentre di rimando la Banks non si esime da moine. Neeson risibile, mentre la Wilde è del tutto incolore. Bocciato.
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