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In tenda sotto la neve

Creato il 02 gennaio 2014 da Patrickc

Una notte in montagna al Salewa base camp di Merano


Perché amo la tenda

(Quante notti ho passato) ascoltando nel dormiveglia quel ticchettio variabile che pareva dirmi: dormi tranquillo, questo è il suono della natura che continua a rinnovare la vita, è il suono materno che alimenta il divenire della terra

(Franco Michieli, Esploratori all’incontrario)

La pioggia, specie quando è leggera, raramente scende regolare. Il suo suono assomiglia più a un messaggio in codice morse, fatto di ritmi e silenzi che costruiscono parole incomprensibili. A volte è un ticchettio, a volte uno schiaffo, a volte un flusso che ti avvolge, come se ti trovassi in mezzo a un fiume. Ma più spesso parla a bassa voce. Questo sussurro l’ho scoperto in tenda: quella sottile membrana che ti ripara e avvolge comunica tutto quello che accade fuori, filtra, amplifica e distorce i suoni, li separa e rende distinguibili. La pioggia parla. Non conoscevo le parole di Franco Michieli che ho citato in apertura prima di scrivere questo post. Le ho trovate per caso, ma credo che Michieli racconti la stessa cosa. Amo dormire in tenda  anche per questo, per ascoltare e pensare in questo spazio confinato, specialmente quando piove. E qualche volta provo la stessa sensazione di quando da piccolo mi tiravo il lenzuolo sulla testa e immaginavo di essere un esploratore al polo nord: la mia immaginazione vola. La tenda me la sono portata sulle spalle in Irlanda, Islanda, Norvegia, Scozia, Hokkaido. Non capisco chi la userebbe solo al caldo, credo si perda qualcosa.

Ma c’è altro. La tenda mi piace perché una bella sensazione portarsi la casa sulle spalle, dà un senso di libertà e sicurezza anche quando fatichi su un sentiero ripido e ti maledici per tutto quel peso in più. Ti senti sufficiente, senti di non aver bisogno di altro, di non dipendere da nulla. La pioggia quindi la conosco, ho sentito la sua voce, per ore. La neve però non l’avevo mai ascoltata.

Davide Sapienza, che la conosce bene, parla di una musica della neve, ma, da come la descrive, questa musica è più simile a una sinestesia, a un incrocio di sensi, anche di tempi. Io quella musica non ho imparato a sentirla né a vederla. Ma qualche giorno fa in cima a un monte ho provato ad ascoltare, forse per la prima volta.

salewa base camp

salewa base camp (foto di patrick colgan)

Il suono della neve

È la neve che muta nel corso delle ore dialogando con la luce e il clima; è la materia bianca da vedere con la gioia negli occhi, la neve capace di condurre l’uomo per vie sorprendenti che spesso passano per il desiderio di vita, amore e unità con quel qualcosa di infinitamente grande del quale facciamo parte

(Davide Sapienza, La musica della neve)

La neve l’ho ascoltata per la prima volta sulla cima di un monte, il Piccolo Catino, a 2300 metri, in una notte di bufera. Sognavo da sempre di dormire in cima a una montagna, da quando ero piccolo e ascoltavo gli ululati del vento dalla nostra casa sull’Appennino. E immaginavo la sua forza sulla cima e poi il gelo, il buio, il vuoto, gli attimi di silenzio profondissimo fra una raffica e l’altra. Però la montagna mi ha sempre fatto anche paura, specie d’inverno e ho quasi sempre evitato di confrontarmi veramente col ghiaccio e la neve per più di qualche ora, su un sentiero ben battuto con o senza ciaspole o su una pista da sci di fondo.

Così quando si è presentata l’occasione di realizzare questo sogno con la persona che amo e che forse non avrebbe mai pensato di fare qualcosa di questo tipo l’ho colta, anche se il viaggio in gruppo non è proprio nelle mie corde, anche se questa opportunità era costosa. Ma partecipare al Salewa base camp è stato bello, è stato vero anche se in un contesto controllato, sicuro. Sopra Merano a 2300 metri è stato preparato un campo con dodici tende da alpinismo e sacchi da spedizione. Si raggiungono con una funivia, una seggiovia e cinque chilometri di cammino. Se il tempo è bello è una facile passeggiata. Ci si gode il panorama che si allarga fino alle dolomiti. Se ci sono vento, nebbia e neve diventa tutto più duro, faticoso, ci si concentra su altri aspetti. Il disorientamento, il confronto con forze soverchianti: quando non si vede il sentiero ci si concentra sul proprio respiro, sui propri passi. Ripenso alle descrizioni del whiteout “latte solido che copre ogni cosa”, come lo descrive Simona Vinci (in Nel bianco ). E’ una parola inadeguata qui, ma mi viene in mente. La pronuncio, ma chi è con noi non la conosce, cambia discorso.

Con noi ci sono altre 22 persone, unite dallo stesso desiderio. Con loro ceniamo al vicino rifugio Mittager, beviamo vino e jagertee e ci salutiamo quando nel buio, nel vento, con rasoiate di vento e ghiaccio che ci sfregiavano il viso mentre affondiamo gli scarponi in un metro di neve fresca raggiungiamo le tende, quelle piccole placente arancioni – così le ha descritte un’amica su Facebook – che ci avvolgeranno nella notte. E la sento, la neve, mentre fatico a prendere sonno, mentre mi giro e rigiro nel sacco a pelo, tenuto sveglio dal mal di testa lasciatomi dalla grappa alla genziana, scosso dalle emozioni. Sento il suo suono ritmico, tutt’altro che leggero, come piccole pietre lasciate cadere sul telo che ci copre. Immagino il suo abbraccio che ci avvolge nel buio, cancella le nostre tracce, quasi a dissolverci in un tutto bianco. Ma non è un’immagine che mi fa paura: mi sento protetto. Nel frattempo il vento scuote, strattona le pareti del nostro riparo, sorpreso di trovarci lì.

Salewa base camp

Salewa base camp

Forse c’è qualcosa nel mio inconscio che mi sveglia nella notte per un bisogno fisiologico, con il mal di testa che mi preme sulla fronte. Ma forse c’è di più, mentre respiro l’aria fredda della tenda, nella quale la temperatura si è abbassata, c’è qualcosa che solletica la pericolosa curiosità di vedere cosa ci circonda nel cuore della notte, cosa c’è al di là della membrana. Forse la verità è che voglio solo vedere e per questo il mio corpo mi fa sentire così. Mi infilo gli scarponi, i pantaloni, la giacca e la lampada frontale ed esco nel buio che ci circonda mentre infuria una bufera. Sono immerso in un buio profondissimo, che illuminato dalla luce diventa un muro di neve in faccia che mi impedisce di aprire gli occhi, circondato dalla nebbia e da un manto bianco nel quale sprofondo. E nonostante la luce non vedo a cinque metri da me. Impossibile vedere il rifugio e dopo tre, cinque, dieci passi (poi scoprirò che erano nella direzione sbagliata) ho le gambe inchiodate fino a metà coscia nella neve fresca e non vedo nemmeno le tende. Quel bisogno fisiologico lo faccio lì e ripercorro con fatica i miei passi fino alla tenda. La montagna ci ha messo pochi secondi a ricordarmi quanto sono piccolo.

Il fotogramma successivo è pieno di luce. Apro gli occhi ed è improvvisamente mattina. Ci parliamo, ci salutiamo nei nostri due sacchi a pelo a pochi centimetri di distanza. Attorno a noi c’è silenzio: il vento ha smesso di scuotere la tenda, la neve ha smesso di cadere e suonare la sua musica. Apro la zip della tenda e metto la testa fuori. Vedo solo bianco, come se durante la notte fossimo diventati davvero tutt’uno con la neve. Poi, fra la nebbia densa distinguo il profilo del rifugio, a un centinaio di metri.

Informazioni sul Salewa base camp

Salewa base camp

Il base camp in un giorno sereno (fonte Meran.eu)

Quest’anno il base camp di Merano va avanti fino al 9 gennaio. La partenza è in genere alle 14 dalla stazione della funivia a valle di Merano 2000. L’età media dei partecipanti è sui 35 anni, ma ci sono anche partecipanti ventenni o di età superiore. Curiosamente nella prima edizione – e il trend è confermato quest’anno – due terzi dei partecipanti sono donne. Le tende, di alto livello, sono attrezzate con materassino gonfiabile, sacchi da spedizione (veramente molto caldi), coperte e cuscini. Non si soffre il freddo. Le info sul sito.


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