This Must Be the Place
Regia di Paolo Sorrentino
Con Sean Penn, Judd Hirsch, Frances McDormand, Kerry Condon, Eve Hewson, Joyce Van Patten, David Byrne, Shea Whigham, Tom Archdeacon, Harry Dean Stanton, Seth Adkins, Simon Delaney, Gordon Michaels, Robert Herrick e altri.
Un’altra buona notizia per il cinema italiano, uscito (sembra) definitivamente dal provincialismo minimalista di cui ha sofferto a lungo.
Anche se questo film è una coproduzione italo/franco/irlandese, infatti, il regista è nostranissimo: nientepopodimenoche Paolo Sorrentino; quello di Gomorra, per chi se lo fosse scordato.
Probabilmente anche il soggetto di questa pellicola è suo. Il che farebbe di lui un autore Autore. In ogni caso, visto che ho trovato tutto di una poesia assoluta, anche ‘stavolta (più che fare una recensione del film) tenterò di dire cosa mi ha regalato.
Mi ha commosso la fragilità del protagonista che viaggia lento, appesantito da tanti “bagagli” contenuti tutti in un passato che non sa passare.
Ho parteggiato per lui e per la sua ricerca (più ancora che coraggiosa) senza alternative. Perché il lungo viaggio che lo porterà lontano, si rivelerà via via sempre più indispensabile per trovare un altro “passo”; finalmente liberato e leggero.
Ho ammirato l’incisività e la necessità dei vari personaggi, molto più che di contorno: parti attive, specchi e guide. Ciascuna storia ha un senso; ogni comparsa dev’essere esattamente dov’è. E non c’è un attore poco meno che bravissimo, tra l’altro.
Ho amato i dialoghi, l’ironia, il doppio/triplo registro della straordinaria recitazione di Sean. Che con la maschera del suo personaggio, sembra esserci nato. Talmente a suo agio da riuscire ad essere perfettamente naturale. Tanto che dopo un po’, dimentichi com’è conciato e ti sorprende la reazione della gente che lo incontra. Ho il sospetto che stia ancora baciando la terra sotto i piedi di Sorrentino, per avergli affidato un ruolo del genere.
Mi ha semplicemente entusiasmata la colonna sonora e la presenza sul palco di David Byrne che con i suoi occhi spiritati e un gruppone ben nutrito in cui spiccano gli archi, ha interpretato (anche visivamente) una nuova versione di “This must be the place”. Intramontabile, elegantissima, trascinante. I Talkin Heads erano dei geni, va detto.
Mi hanno affascinato i molti simbolismi che punteggiano tutto il film. La loro potenza evocatica che arriva con il tramite poetico, ma arriva sempre. Basta lasciarsi portar via.
Mi ha rapito la splendida fotografia; mai gratuita né compiaciuta. E il montaggio sfasato che qualche volta anticipa gli avvenimenti, ma senza lasciarti nessun dubbio.
Persino il finale mi è piaciuto. Degno epilogo di una storia che nasconde diversi livelli di sorpresa.
E non ho potuto fare a meno di notare una cosa che capita solo al cinema (inteso come luogo): sui titoli di coda, il pubblico era tutto in piedi, con gli occhi incollati allo schermo per carpire i titoli dei brani, gli autori, le locations e ogni particolare d’interesse cinefilo.
Ultimamente ho iniziato a giudicare lo spessore di un film dalla sua capacità di durare nel tempo. E questo, di tanto in tanto, si affaccia ancora tra le pieghe del quotidiano. Come fanno, a volte, le canzoni, le immagini o le parole che lasciano il segno.