Ho compiuto il viaggio da Venezia ad Auschwitz nell’estate del 1995, cinquant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, con mezzi volutamente poveri, a piedi, in autobus, in autostop, in treno. Intendevo guadagnarmi un ritardo rispetto alla mèta che avevo scelto. Chiesi a due miei amici, Plinio Perilli e Eusebio Ciccotti, di venire con me perché volevo uscire dall’individualismo tipico dello scrittore. Si tratta di un’esigenza che ho sentito anche in fase di elaborazione creativa, nel momento in cui, tornando a casa, ho provato a mettere mano agli appunti presi durante il percorso. E’ stato in quella fase che il libro, tassello dopo tassello, ha preso corpo come un mosaico, attraverso il confronto tra la mia singola voce e le centinaia di cronache che avevo letto: dai testi famosi di Primo Levi e Robert Antelme, alle testimonianze di Améry, Semprun, Wiesel, Borowski e moltissimi altri, compresi i grandi cronisti del gulag, da Gustaw Herling a Aleksandr Solzenicyn. Come se avessi fatto il viaggio idealmente mano nella mano insieme a ognuno di loro, ho filtrato la sensibilità dei protagonisti diretti con la mia, di uomo in cammino anche dentro se stesso. Quello che avevo scoperto, avanzando fra l’Austria, la Slovacchia e la Polonia, non riguardava una sola persona, ma chiamava in causa tutti noi, come cittadini appartenenti alla generazione dei reduci di pace, per l’appunto, i nati dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Eraldo Affinati, da un’intervista a Beppe Mariano.
Magazine Cultura
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