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Incipit. Che faccio?

Creato il 05 settembre 2013 da Unarosaverde

Il signore e la signora T. abitavano da molti anni la casa rossa sul fiume. Trascorrevano le giornate immersi nelle faccende quotidiane, il più possibile lontano l’una dall’altro, per avere qualcosa da raccontarsi la sera, dopo il caffè, seduti nella veranda che guardava gli argini.

Avevano condotto all’altare il figlio maggiore, spedita all’estero a studiare la figlia di mezzo e sopportavano gli scampoli d’adolescenza del figlio più piccolo, snocciolando parolacce o preghiere, a seconda dell’umore o della gravità del momento.

Erano pronti a vivere in pace la successiva decina d’anni, prima che i dolori della vecchiaia, per ora addormentati nel nido delle ossa, scatenassero i loro sabba.

La signora T. aveva posseduto una libreria e ancora correva felice ad aiutare la nuova proprietaria nei momenti di maggiore ressa. Si occupava dei fiori sui balconi, dei gatti di casa e di quelli del quartiere. Leggeva poesia contemporanea e cambiava la collaboratrice domestica perlomeno una volta l’anno, non appena si accorgeva che gli occhi del figlio minore si posavano con troppa insistenza sulle curve generose delle brasiliane o negli occhi profondi delle africane.

Perfettamente consapevole dell’inconsistenza emotiva della propria prole, si affrettava a mettere fine alla situazione prima che diventasse spiacevole. La ragazza di turno, impacchettata e rassicurata, veniva spedita da un’amica bisognosa di aiuto.

Le amiche della signora T. cominciavano a scarseggiare e questo, seguita dalla stesura della lista settimanale della spesa, era rimasto il fastidio maggiore della sua vita.

Il signor T., insegnante in pensione, si occupava dei fiori del giardino e degli acciacchi della casa e detestava, senza discriminazioni, i gatti domestici e quelli randagi. Divorava librucoli e libroni che si era a lungo negato – tra compiti da correggere, lezioni da preparare e scartoffie da compilare il tempo gli era sembrato non bastare mai – e imparava ogni anno le basi di una lingua straniera, cercando di non soffrire troppo quando l’insegnante spariva, lasciandolo, di solito, alle prese con i verbi irregolari.

Provava l’urgente bisogno di una rinfrescatina allo spagnolo e sperava molto che la successiva collaboratrice domestica provenisse dalle ex colonie della Regina di Castiglia.

La casa dei signori T., di un rosso sbiadito ma pur sempre vivido in un quartiere di mura chiare, era un luogo quieto e pieno di luce. In quel punto, scivolato sotto l’ultimo ponte, il fiume curvava, ansioso di abbandonare il caos della città e di rituffarsi tra i campi.

La strada, fiancheggiata da lunghi marciapiedi su cui spuntavano platani enormi, terminava sul piazzale di una scuola, che inghiottiva i ragazzi la mattina presto e li risputava fuori all’ora di pranzo.

Le voci e i clacson degli autobus e delle automobili interrompevano il silenzio solo per pochi minuti per poi sparire di colpo, lasciando spazio alla calma di sempre. Poco più in là, nascosti dalle case di fronte, grandi viali portavano in centro e alle autostrade della pianura ma i loro rumori giungevano attutiti, in sordina, e solo se qualcuno ci faceva caso.

Il giardino, chiuso su tre lati da un’alta siepe, allungava il quarto sull’argine, delimitato a tratti da un muretto che lasciava aperta la vista sull’acqua. La scenografia ideale, pensavano i signori T., come sfondo per la loro vecchiaia.

Ecco, questo è. Cosa faccio? Vado avanti, lascio stare, ha senso, incuriosisce, è roba già vista-giàletta-giàsentita, è scritta con lo stile di un Harmony o di un temino delle medie, lascia indifferenti? Ci impiego tempo e ci lavoro su o richiudo il tutto nel cassetto e vado a fare due passi? Ritiratemi giù sulla terra di terra da quella di sogni.


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