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Incipit: come scrivere una storia

Da Marcofre

Incipit come scrivere una storia

Scrivere una storia vuol dire iniziare da qualche parte. L’incipit, appunto.
Ma come di sicuro avrai imparato da un pezzo, la frase che apre la storia, non è detto che sia davvero l’incipit. Forse finirà per essere il brano con il quale chiuderai quella storia, oppure sarà una parte che confluirà in una pagina centrale. Soprattutto, qualunque sia il destino di quello che scrivi, ricorda che non devi essere rigido.
Intendo dire che niente è perfetto, ma tutto è soggetto al regime dell’ascia.

Che cosa vuol dire tagliare

Anche un incipit è soggetto alla legge dell’ascia: può essere modificato, riscritto in maniera radicale, soppresso. Non c’è niente di intoccabile, in una storia che si scrive. Per due ragioni: non devi produrre niente di perfetto (ma comunicare); e la parola è uno strumento imperfetto.
Di solito lo scrittore emergente è convinto di aver sempre prodotto qualcosa di eccezionale. E non taglia nulla perché è talmente pieno di sé, che eliminare una frase è un’eresia.
Chi scrive ha a cuore la storia, non se stesso; per questa ragione taglia. Questo è il processo con il quale ci mettiamo in ascolto della storia, e ci facciamo da parte. Certo, usiamo i nostri poveri mezzi, ma li usiamo al meglio delle nostre capacità. Sempre pronti a cambiare, a usare l’ascia se è necessario.
E poi, la parola è poco potente. Non ha la persuasione, la seduzione della narrazione orale che si appoggia alla mimica, al tono della voce, ai gesti. Può diventare precisa e feroce come un chiodo solo se ci si impegna, se si riscrive. Se si taglia, esatto.

Come deve essere l’incipit?

L’incipit: come deve essere? Molti sono tormentati dalla questione. Il mio consiglio è: scrivilo. Già, non è niente di eccezionale. Il mondo è zeppo di incipit che non sono memorabili, ma dimostrano una voce, che poi si riconferma nelle pagine seguenti.

Comunque, all’inizio, tutti erano contenti a Dukana”.

Questo è l’incipit di “Sozaboy” dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa (il traduttore è Roberto Piangatelli).

Sulle strade polverose che dalla Slesia e dalla Sassonia, attraverso cittadine e villaggi devastati dalle guerre napoleoniche, entravano in Polonia, passavano lunghe processioni di carri e barrocci carichi di uomini, di donne, di bambini e di masserizie.”

Qui invece abbiamo “I fratelli Ashkenazi” di Israel J. Singer (il traduttore è Bruno Fonzi). Orsù, adesso mettiamoci a studiare la formuletta che ci permetta di giudicare quale dei due è quello vincente. Capace cioè di far cadere dalla sedia il lettore.
Esatto: non c’è alcuna formuletta.
Quando scrivo, effettivamente le prime righe dei miei racconti sono sempre stati gli incipit; ma questo non vuol dire niente. Non ho mai iniziato nulla sino a ora partendo per esempio dall’epilogo. Oppure da un dialogo. C’è un’immagine che mi folgora, e le vado dietro. La caccia è aperta, chissà dove andremo a finire. A destinazione?
O in un fosso?

È davvero importante l’incipit?


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