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Incollati alla poltrona - Irrottamabili senza vergogna

Creato il 14 giugno 2015 da Tafanus

L'impresentabile De Luca eletto in Campania con i voti di De Mita. L'indagato Castiglione non si dimette da sottosegretario. E tanti altri che sostengono il governo. Così il rinnovamento del premier resta uno slogan (di Emiliano Fittipaldi - l'Espresso)

La rottamazione è stata rottamata. È bastato un anno, e il sogno di Matteo Renzi s'è infranto contro il potere dei De Luca e dei Castiglione. «Siamo garantisti, tutti sono innocenti fino a prova contraria», ripete a ogni scandalo. Un mantra che tenta di nascondere la verità: l'Italia degli immortali alla Ciriaco De Mita, degli impresentabili come Mirello Crisafulli, dei Roberti lombardi Maroni e Formigoni che confondono il pubblico con il privato, dei sottosegretari intoccabili modello Simona Vicari, ha mostrato al giovane premier che la partita non è affatto finita, e che non c'è propaganda che tenga: il cambiamento va bene fino a un certo punto, e la politica, tutta, deve venire a patti con loro. È la legge degli zar di provincia che da Sud a Nord tengono il Paese nel taschino. Perché, alla faccia delle inchieste e del vento di cambiamento alla fine i voti li prendono sempre loro.
Oggi "l'irrottamabile" più in voga è Vincenzo De Luca, "impresentabile" per la Commissione Antimafia ma trionfatore delle elezioni regionali in Campania. Caudillo meridionale che nemmeno Achille Lauro, è riuscito - mentre a Roma si succedevano dodici governi e otto presidenti del Consiglio - a trasformare Salerno nel tinello di casa sua: in città regna indisturbato dal 1993, e solo lo scorso febbraio qualche "personaggetto" del Tar e della Corte d'Appello l'ha costretto a un passo indietro. Vincenzo, fregandosene della legge sull'incompatibilità, per quasi un anno s'era seduto sulla poltrona da sindaco e pure su quella da viceministro ai Trasporti dell'esecutivo di Enrico Letta. I giudici, con un po' di ritardo, l'hanno fatto decadere.
Da capobastone che sguazza come pochi nelle pieghe delle regole, Vincenzo non se ne è dispiaciuto più di tanto, ha subito fatto ricorso in Cassazione e piazzato in Comune un suo fedelissimo (Vincenzo Napoli) come suo "facente funzioni". In attesa che uno dei due figli (i piddini Piero e Roberto) ne prendano ufficialmente il testimone presentandosi ai salernitani come degni successori. Anche la condanna in primo grado per abuso d'ufficio non gli ha nuociuto: se Renzi gli ha concesso di partecipare alle primarie nonostante sapesse che la legge Severino lo avrebbe costretto a sospenderlo in caso di vittoria, gli elettori - forse indispettiti dalla decisione di Rosy Bindi, che ha ricordato a tutti che De Luca è protagonista di un altro processo in cui è accusato di truffa, concussione e associazione a delinquere - l'hanno votato in massa. Risultato prevedibile: anche quando l'esuberanza rischia di tracimare nella guapperia da arruffapopolo, gli italiani premiano sempre il vigore e la cazzimma. Mentre i presunti rottamatori non possono fare a meno di chi controlla capillarmente il territorio: durante le primarie del 2013 nel fortino dello sceriffo Renzi prese il 97,1 per cento dei voti degli iscritti del Pd.

Renzi-demita1
Alle regionali campane ha signoreggiato anche un'altra nemesi del rinnovamento renziano: Ciriaco De Mita. Il Pd dei rottamatori non ha avuto paura di mostrare il pelo sullo stomaco, e s'è alleato con l'87enne sindaco di Nusco, l'uomo a cui chiunque voglia comandare in Campania deve chiedere il permesso: Antonio Bassolino prima e Stefano Caldoro poi sono arrivati a Palazzo Santa Lucia solo dopo aver stretto un patto con l'ex segretario della Dc. Stavolta Ciriaco ha fatto un doppio carpiato a pochi giorni dalla presentazioni delle liste, spostando la sua Udc dal centrodestra alla sinistra dopo un accordo notturno con De Luca in persona, organizzato a Marano di Napoli. L'ambizione, anche stavolta, ha eliminato ogni asperità: Vincenzo anni fa definiva De Mita «un folclore, un problema politico che in Campania abbiamo da 40 anni». La stretta di mano con l'immortale democristiano è stata decisiva, perché con i 53 mila voti dell'Udc (senza contare quelli dei cosentiniani e di altri impresentabili) Caldoro avrebbe rivinto le elezioni. In attesa del vicegovernatore telecomandato da De Luca, è quasi certo che Antonia De Mita, figlia illustre del grande vecchio, finisca in giunta come assessore.

Se Renzi a Napoli non ha nemmeno provato a fare ostruzione, con Vladimiro "Mirello" Crisafulli ha giocato di sponda. Quasi 66 anni, potente capotribù di Enna fin dai tempi del Pci e del Pds - riusciva a vincere anche quando Berlusconi in Sicilia portava a casa 61 collegi su 61 - Mirello ha ottenuto al primo turno delle comunali il 40,95 per cento dei voti, e nessuno scommette neppure un euro su una sua sconfitta al ballottaggio.
Niente è riuscito a fermare i suoi elettori, neppure l'inchiesta della procura di Caltanissetta risalente al 2001: Crisafulli fu immortalato in un video della squadra mobile mentre baciava e chiacchierava di appalti e politica, in un hotel di Pergusa, con il capomafioso della zona Raffaele Bevilacqua. La sua posizione fu archiviata, ma il marchio di "impresentabile" - forse anche a causa della faccia che piacerebbe a Scorsese e la panza così poco da Leopolda - non è mai riuscito a toglierselo di dosso. Renzi ha bloccato la sua candidatura in Senato, ma quando Mirello ha deciso di diventare sindaco della sua città e quando il 73,7 per cento delle schede dei gazebo delle primarie hanno indicato il suo nome, si è arreso. Al Nazareno hanno costruito un compromesso da ancien régime: «Mirello lo appoggiamo, ma non potrà usare il simbolo del partito». Poco male: la lista civica "Enna Democratica", un clone con gli stessi colori e stesso logo del Pd, ha fatto incetta di voti. Oltre il 33 per cento, otto punti in più rispetto a quanti ne presero i democrat alle comunali del 2010.
«A Salerno mi votano anche le pietre», dice De Luca. «Io a Enna vinco con il maggioritario, col proporzionale e pure col sorteggio», spiega Crisafulli. «De Mita è così forte che Napoli è stata ribattezzata Avellino marittima», chiosavano alcuni deputati qualche anno fa in Transatlantico. L'eterno ritorno degli irrottamabili ha, in effetti, una sola spiegazione: i cacicchi gestiscono i voti nei paesi e nelle città, strada per strada, e il loro consenso non viene intaccato né da condanne né da avvisi di garanzia, né dalla retorica rottamatrice né dalle campagne contro il trasformismo. I loro capivoto sono ovunque. Nelle associazioni, nelle Camere di Commercio, nelle imprese, nelle parrocchie, nelle autorità portuali, nei sindacati, negli ospedali e nei patronati, e oggi come cinquant'anni fa possono spostare consensi in mezza giornata. Se i partiti vogliono i loro voti devono patteggiare.
Tra gli irrottamabili c'è anche chi ha fatto il passo più lungo della gamba, e rischia di finire la carriera prima del tempo. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris è stato condannato in primo grado a un anno e tre mesi per abuso d'ufficio (durante l'inchiesta Why Not lui e il suo consulente Gioacchino Genchi avrebbero acquisito senza le necessarie autorizzazioni i tabulati di cinque parlamentari, tra cui Romano Prodi e Clemente Mastella), ed è stato sospeso per 50 giorni a causa della legge Severino. Come un Berlusconi qualsiasi l'ex pm ha urlato all'errore giudiziario e al complotto dei poteri forti, ha fatto ricorso ed è stato reintegrato dal Tar. Dopo la sentenza della Cassazione di fine maggio, però, Giggino rischia seriamente di tornare a fare il "sindaco di strada". Lui, ha giurato, prima di mollare la poltrona venderà cara la pelle. Altri impresentabili, invece, sembrano aver puntato sui loro parenti. Se Armando Cesaro, figlio di Luigi detto "Giggino 'a purpetta" e indagato per i rapporti con i casalesi, è diventato consigliere regionale con oltre 22 mila voti, il fratello di Totò Cuffaro è ora sindaco di un paese vicino ad Agrigento, mentre il nipote dell'ex ministro Claudio Scajola, Marco, è stato il consigliere più votato a Imperia .
«Conoscendo il mio stile, avrò invitato Luca Odevaine a pranzo, anche se non ricordo chi fosse presente». Lo stile è tutto per il sottosegretario all'Agricoltura Giuseppe Castiglione, in quota Ncd, collettore di voti per il partito del ministro dell'Interno Angelino Alfano in Sicilia. Alle elezioni europee di un anno fa, nel 2014, l'Ncd prese in tutta Italia il 4,3 per cento, superando di un soffio il quorum. Senza il 9 per cento e i 155mila voti arrivati in dote dalla Sicilia il risultato sarebbe mancato e la carriera politica di Alfano sarebbe finita per sempre. A Bronte, il comune natale del sottosegretario, la percentuale sale al 25 per cento. A Mineo sfonda quota 39 per cento: l'Ncd è un partito di massa. Nella città che secondo le dichiarazioni ai magistrati di Salvatore Buzzi «potrebbe far saltare il governo». Colpa degli appalti del Cara, il centro accoglienza richiedenti asilo, affare da quasi cento milioni di euro. Per l'assegnazione dell'appalto si mosse Odevaine, oggi indagato numero uno nell'inchiesta Mafia Capitale, che ricorda il pranzo con Castiglione, all'epoca presidente della Provincia di Catania e dell'Upi, l'unione delle province italiane: «Mi ha portato a pranzo. Arriviamo al tavolo, c'era una sedia vuota. E praticamente arrivai a capire che quello che veniva a pranzo con noi era quello che avrebbe dovuto vincere la gara». La politica della sedia vuota, da De Gaulle a Castiglione, personaggio di solida ambizione. L'Anticorruzione di Raffaele Cantone ha commissariato l'appalto assegnato nel 2014, Castiglione giura di non saperne nulla. Al suo posto, a guidare il consorzio che ha vinto l'appalto, c'era il sindaco di Mineo Anna Aloisi, Ncd, vicina a Castiglione e Alfano, anche lei indagata. Il sottosegretario non se ne va, il ministro tace. Lo stile è salvo, il governo chissà. È andato giù al Senato sulla scuola per la diserzione dei senatori Ncd. E di un altro esponente del partito, il ras di Molfetta Antonio Azzollini, è stato chiesto l'arresto. Lui è un irrottamabile ante litteram: dal Pdup ai Verdi al partito di Alfano, oggi alla presidenza della Commissione Bilancio di Palazzo Madama.

Se in Campania, Puglia e Sicilia l'impunità è un abito che si porta senza pudore, in Lombardia, in cima al Pirellone, richiede quasi uno sdoppiamento di personalità. C'è l'ex presidente della regione Roberto Formigoni, oggi senatore dell'Ncd: a Roma pontifica di alta politica, a Milano è sotto processo per lo scandalo della fondazione Maugeri, imputato per associazione a delinquere e corruzione che rischia un altro processo per i presunti finanziamenti ricevuti dall'ex consigliere regionale del Pdl Massimo Guarischi, già condannato in primo grado a cinque anni. Una somma da 447.000 euro, secondo i pm, più viaggi e soggiorni all'estero, aerei privati, pranzi e cene.

Maroni-tamburello
Il suo successore al Pirellone, il leghista Roberto Maroni è ancor più scisso. Da governatore del Carroccio tuona che non darà più un euro ai comuni lombardi che accoglieranno i profughi. Da uomo di potere, com'è da quando esordì nel 1994 a 39 anni al Viminale da ministro dell'Interno del primo governo Berlusconi, gestisce personalmente incarichi, consulenze e stipendi. Ha promesso una consulenza di 65mila euro alla sua collaboratrice Maria Grazia Paturzo, secondo quanto dichiarato da lei stessa ai pm di Milano. Posto in Expo 2015, su cui in teoria Maroni non aveva voce in capitolo, retribuzione stabilita due mesi prima del colloquio di lavoro, a scatola chiusa, sulla fiducia.

Generoso, Maroni: un'altra collaboratrice, Mara Carluccio, ha ricevuto un altro incarico in una società controllata dalla Regione grazie all'interessamento del braccio destro del governatore, l'ex capogruppo leghista alla Camera Andrea Gibelli, anche lui indagato. E dire che è stato appena nominato come moralizzatore (dopo lo scandalo che ha travolto il predecessore) presidente delle Ferrovie Nord, da cui dipende la vita dei pendolari della regione. Un altro amico di Bobo, l'avvocato calabrese Domenico Aiello, detto il Ghedini di Maroni, è stato piazzato invece nel cda di Expo 2015. Comprensibile l'incavolatura di Isabella Votino, già portavoce dell'ex ministro leghista, che sulla Paturzo sbotta con il capo: «Va bene tutto, ma farmela ritrovare a lavorare con noi mi sembra davvero scorretto». Eh già, va bene tutto, in cima al Pirellone delle corsie preferenziali per gli amici e le amiche.
Come tutto va bene nell'aula del Senato, o meglio ancora in piazza San Lorenzo in Lucina dove, di buon mattino, alla luce del sole, Denis Verdini riceve i suoi interlocutori. Il più assiduo è il deputato Antonio Angelucci, il re delle cliniche romane che all'amico toscano diede in prestito quindici milioni di euro per saldare il debito con il Credito cooperativo fiorentino. Anche Verdini ha i suoi guai giudiziari, dal processo per bancarotta a quello per la P3, eppure la sua preoccupazione delle ultime settimane è l'arruolamento di un gruppo di senatori in grado di condizionare Silvio Berlusconi e di aiutare l'amico Renzi, in caso di bisogno. Con il bel risultato che, a quel punto, la vita del governo sarebbe garantita dal potente senatore fiorentino. Irrottamabile e indistruttibile, come la sottosegretaria Simona Vicari, devota di Renato Schifani, new entry governativa tra gli indagati, e l'assessore regionale della Calabria Nino De Gaetano, Pd, titolare dei Lavori pubblici nella giunta Oliverio. Nel 2012 la polizia voleva arrestarlo per i suoi legami con la cosca dei Tegano, oggi resta al suo posto, a farne le spese è stata l'ex ministro Maria Carmela Lanzetta, fuori dalla giunta. Resta indisturbato alla Camera il deputato Pd Marco Di Stefano, indagato per una maxi-tangente da 1,8 miliardi. Anzi, la consigliera comunale di Roma Liliana Mannocchi, che è appena subentrata in Campidoglio agli arrestati di Mafia Capitale, è una sua fedelissima. E presto tornerà, niente paura, l'ex governatore del Veneto ed ex ministro berlusconiano Giancarlo Galan. Ha patteggiato una pena da due anni e dieci mesi per corruzione nell'inchiesta Mose e ha restituito oltre due milioni di euro. Il 15 luglio sarà di nuovo libero e ha già annunciato che riprenderà a fare il presidente della Commissione Cultura della Camera. Non ha mai lasciato la poltrona, del resto. Perché farlo?

Espresso

Emiliano Fittipaldi - l'Espresso

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