Il vecchio Charles Bukowski lo ripeteva fino alla noia ma ciò non toglie che avesse fottutamente ragione: dopo Ernest Hemingway è il miglior scrittore di racconti del secolo. Le sue poesie, i suoi romanzi, la sua sceneggiatura (un consiglio, recuperate “Barfly” di Barbet Schroeder, interpretato da Mickey Rourke e con un cameo dello scrittore) perderanno inevitabilmente vigore col tempo. La penna di Bukowski risulterà invece difficilmente superabile nelle raccolte di racconti, dal fin troppo celebre “Compagno di sbronze”, fino ad arrivare “A sud di nessun nord”. Pubblicato per la prima volta in America nel 1973, con l’esplicativo sottotitolo di “Storie di una vita sepolta”, “A sud di nessun nord” arriva in Italia soltanto cinque anni dopo la morte del grande scrittore americano, avvenuta nel 1994 per leucemia (e di cos’altro poteva morire un leggendario beone come lui?). Il micro-macrocosmo di Bukowski composto da puttane, sbronze, ladri, strade, stamberghe, bar, taverne, ippodromi, scrittori e scopate, è sempre lo stesso per il semplice motivo che non sapeva scrivere di altro, come ammetteva candidamente. Non è un caso, quindi, che anche in quest’opera, su 27 novelle complessive, ben 15 abbiano come protagonista l’alter ego dell’autore, Hank Chinaski. Che poi certa critica faccia finta di non capire che un grande scrittore non possa che parlare di sé e di quel che sa, e additi la scrittura di Bukowski come meramente onanistica, è questione che rimando ad altre sedi. Altro luogo comune difficilmente estirpabile, è che l’autore americano rappresenti una tappa obbligata nel percorso culturale di un giovane intellettuale. In realtà questo successo è meno invasivo di quello che si crede, e tende alla superficialità. La maggior parte dei giovani infatti, è attirata più dalle situazioni borderline trattate che dalla sua scrittura effettuale. Bukowski è molto di più di un laido ubriacone e la sua vita sta a dimostrarlo. Uno scrittore esploso sul mercato dell’editoria tardi, anzi tardissimo, grazie all’intuito del proprietario di una (fino ad allora) piccola casa editrice, che lo convinse, a 49 anni suonati, ad abbandonare un mesto impiego alle Poste per dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Come ha riassunto lui stesso: “Chiunque può essere un genio a 25 anni, a cinquanta ce ne vuole”. Il successo tardivo gli ha nel frattempo permesso di accumulare una regressa serie di aneddoti e tipi umani che, mischiati a una dose di immaginazione mai negata (la ricerca di realismo biografico nella narrativa di uno scrittore è un vetusto e purtroppo vivo retaggio ancora oggi), hanno costituito l’esplosiva base per i suoi scritti. “A sud di nessun nord” rappresenta un tassello fondamentale per l’esplorazione dell’universo dello scrittore americano, tant’è che al suo interno, si trovano dispiegate tutte le ossessioni e i paradossi dell’autore. Vi sono ad esempio un paio di racconti prescindibili per scarso appeal, come il primo, “Solitudine”. Si tratta infatti di una debolissima pennellata sulla vicenda di una donna che risponde a un laconico annuncio “Cercasi donna” e trova solo uno sfigato. Bukowski, per restare nella metafora pittorica, era terribile le volte in cui decideva di abbozzare in chiaroscuro immagini di donne fragili o medie. Alla sua penna si confaceva esclusivamente il ritratto di figure femminili perdute e troie (queste due caratteristiche erano inscindibili in quelle che ha amato nella vita).
Per una strana coincidenza, l’altra novella superflua chiude il libro. Si tratta di “Tutti i culi del mondo tranne il mio” che, a parte il bel titolo, si sofferma su un noioso resoconto di un’operazione per emorroidi che vede protagonista il sofferente Hank. “Il killer” e “Cristo sui pattini a rotelle” invece, potrebbero risultare scritti da un anonimo epigono per quanto strabordino di moralismo. I due racconti denunciano con calcato cinismo la sordidezza rispettivamente di un cliente che assolda un killer per uccidere la moglie, e di un proprietario di una squadra di hockey. Anche in questa antologia non mancano un paio di sconfinamenti nel regno dell’assurdo, che risultano ancora più stranianti perché nemmeno in questi casi Bukowski rinuncia alla sua scatologica scrittura. “Non c’è via per il paradiso” parla infatti di quattro omini di 10 centimetri e delle loro beghe interne, intervallate da accoppiamenti sia tra loro che tra Dawn (la loro proprietaria) e il buon Hank. In “Il diavolo era caldo” si narra di un tizio che libera il diavolo da un baraccone del circo. Satana, per “ricompensa”, lo schiavizza e gli ruba la donna. Particolarmente divertente risulta il fatalismo del protagonista, che si adatta a una situazione via via cangiante senza mai protestare. La storia più cattiva del libro, che risulta ancora più spietata proprio perché lo scrittore adotta un glaciale occhio clinico, è “Gli assassini”, dove due spiantati che si incontrano per caso in una bettola, decidono di rapinare una casa. Gli eventi precipiteranno subito, e i due si ritroveranno ad uccidere il giovane proprietario di 26 anni, violentarne e ammazzarne la moglie di 23, dimenticando pure di rubare il portafogli della vittima. Anche se il machismo di Bukowski alle anime delicate può apparire spesso ferino, lo scrittore americano era il più sincero dei cantori nel delineare figure maschili. In “Ehi, bello, piantala di guardarmi le tette” (schietto fin dal titolo), ad esempio, si trova la classica figura del vincente bukowskiano che fa innamorare di sé una ragazza per via del suo grosso arnese. Ma non tutti gli uomini di Bukowski sono così fortunati e risaltano per un’acuta introspezione psicologica e per indeterminatezza di esiti sia “Tu e la tua birra quanto sei ganzo” che “Un uomo”. Lasciandomi andare all’abusata pedanteria della classificazione, due sono le novelle che si contendono la palma della migliore. “Storia di una bandiera vietcong”, in appena 4 pagine, demolisce da par suo la pusillanimità dei giovani sessantottini. Lo sfaccendato Red stupra Sally senza che i suoi due amici, persi in futili intellettualismi, muovano un dito. Tutte le convinzioni e le costruite ideologie della ragazza vanno in frantumi al primo incontro-scontro con la vita vera e sarà lei stessa a riabilitare il suo violentatore agli occhi dei suoi attoniti compagni di viaggio. “Classe” è invece una perla di divertissement, metaletteratura dove arte e vita fanno da reciproca ispirazione per dare lo spunto a un racconto straordinario. Chinaski fa a pugni con Hemingway, lo sbeffeggia, lo stende, spodesta Tom Wolfe dal letto di una donna e ottiene il riconoscimento da parte di un critico del titolo di “miglior scrittore del secolo”. “Non sai scrivere una storia d’amore” ha uno dei migliori attacchi mai apparso nella narrativa degli ultimi cent’anni. Cito doverosamente: «Margie doveva uscire con questo tipo ma mentre stava andando a prenderla lui incontrò un altro tipo con una giacca di pelle e il tipo con la giacca di pelle aprì la giacca di pelle e gli fece vedere le tette, così il primo tipo andò da Margie e le disse che non poteva uscire con lei perché il tipo con la giacca di pelle gli aveva mostrato le tette e lui aveva intenzione di fotterselo». La scrittura di Bukowski era così essenziale che riusciva, negli esiti migliori, a condensare in poche parole parabole su cui altri avrebbero scritto romanzi. È il caso di “Uno spedizioniere col naso rosso”, sunto magistrale del successo di un amico di Hank, che da scrittore underground diventa mainstream. Nessun orpello, nessuna retorica, una nuda e asciutta esposizione di fatti eloquenti. Sarebbe regola del buon recensore astenersi dal giudizio di un autore che si ama. Per Charles Bukowski vale la pena di perdere in autorevolezza. Pur con qualche caduta di stile “A sud di nessun nord” resta un capolavoro della letteratura novecentesca.