Tra i compiti, al di sopra delle sue possibilità, affidati a Mario Monti (ed al suo governo di specialisti sulla carta) vi era il cosiddetto recupero di credibilità internazionale.
L’ingenuità di questo obiettivo – in verità, una palese presa per i fondelli – era insita nel fatto che un individuo, considerato nella sua singolarità, senza il sostegno di una classe dirigente preparata alle sfide storiche ed in possesso di un adeguato bagaglio di esperienze politiche, senza l’azione ed il supporto di servizi d’intelligence e degli altri apparati statali, indispensabili a raccogliere le informazioni di scenario che i decisori apicali traducono, in seguito, in scelte operative, senza la disponibilità di un esercito addestrato ad ogni evenienza e dotato di equipaggiamenti all’avanguardia, non è in grado di riconquistare alcunché.
La credibilità internazionale nasce dalla sovranità nazionale, ovvero dalla capacità di una collettività e dei suoi agenti strategici di difendere i propri spazi vitali e di proiettarsi, con istanze politiche rapportate ai propositi, abilità di penetrazione economica e peculiarità culturali, sui vari teatri epocali.
Tradotto in soldoni, è credibile chi dimostra l’efficacia e l’efficienza dei mezzi e delle istituzioni pubbliche che tracciano i suoi orizzonti esistenziali, intrinseci ed estrinseci, e non si limita ad accettare passivamente soluzioni calate dall’alto e da fuori, per di più attraverso la delega volontaria di ogni processo deliberativo all’alleato di turno o ad organismi di sedicente compartecipazione orizzontale che celano ben altra verticale del potere.
In realtà, l’ex professore dell’Università di Trento divenuto rettore, cioè dirigente amministrativo della più quotata Bocconi di Milano, aveva ricevuto l’endorsement delle cancellerie mondiali per le sue concezioni sovranazionali idealistiche (ovvero conformistiche) che avrebbero riportato l’Italia all’interno di dinamiche condivise, o, detto meglio, prestabilite dai più energici partner occidentali, dopo alcuni atti “d’insubordinazione” russa e nordafricana del Gabinetto Berlusconi.
Dietro le differenti politiche estere dei Paesi, anche se riassunte con espressioni attraenti ed una simbologia tranquillizzante – si pensi alla “politica del sorriso” inaugurata dal Premio Nobel per la pace Obama, il quale, irridendo la pacificazione e la nostra credulità, si è infilato in tutti gli scenari caldi del pianeta con i suoi marines, i suoi droni e le sue basi militari – si nascondono i rudi rapporti di forza, i disegni e i piani egemonici delle (super)potenze, i modelli di rappresentazione della democrazia e delle libertà civili da esportare, con la (pre)potenza, in ogni angolo del pianeta, in nome di una superiorità morale, ancora tutta da dimostrare.
La figura di Monti, così ingigantita da lontano e da vicino, non ha partorito nemmeno il topolino delle ripresa economica che, anzi, dopo i salassi fiscali e le iniziative limitative della spesa sociale e degli investimenti pubblici, si è ancor di più allontanata.
Con il fallimento su tutta la linea, costui però ha assolto ai suoi doveri. Non sorprendetevi, giacché di questo si tratta. Mi si consenta una citazione cinematografica, poco colta, da un vecchio film di Sergio Martino, interpretato da Lino Banfi, che ha il pregio di chiarire il paradosso.
L’attore pugliese è nella finzione Oronzo Canà, tecnico visionario, di infima categoria, che viene chiamato ad allenare, per la prima volta nella sua carriera, una squadra neopromossa in seria A, la Longobarda. Il Presidente lo opziona perché ha deciso di rimandare la squadra in serie cadetta, non aspirando a sostenere gli ingenti ingaggi di un campionato superiore, anche se pubblicamente dichiara di riconoscere nel trainer qualità non comuni e virtù da salvatore della squadra.
Ora, gettate uno sguardo sugli sponsor di Mario Monti e tirate le dovute somme. Chi ha auspicato l’arrivo del cattedratico in sella all’Esecutivo fa parte di quei gruppi della speculazione organizzata che avevano lanciato l’OPA sulla Penisola, sin dall’inizio della crisi. Il Presidente del Consiglio doveva garantire che il business predatorio continuasse a filare, anche a rischio di far retrocedere l’Italia nella serie B del capitalismo continentale.
Per questo, a cagione di Monti, sono cresciute le difficoltà, in ogni sfera sociale, con la finale estinzione della nostra credibilità internazionale, non sui giornali stranieri ma dentro agli eventi della fase.
Adesso, i medesimi media che agli esordi avevano incensato l’accademico con scarse citazioni scientifiche, lo criticano apertamente (secondo il Financial Time“non è l’uomo giusto per guidare il Paese”) e gli rimproverano la discesa nell’arena elettorale. Questi non vedono di buon occhio il suo impegno diretto perché, agendo scopertamente nella tribuna pubblica, l’ex Premier certifica la sua primigenia ambizione politica e rivela le manovre di palazzo che lo avevano portato in auge, in qualità di finto tecnico e vero sodale dei potentati globali.
Peraltro, questo personaggio si è dimostrato di scarso coraggio, ottenendo, dal PresdelRep, di essere nominato senatore a vita, prima di procedere con i suoi decreti a colpi di fiducia parlamentare e contraccolpi sul ménage delle famiglie, garantendosi l’immunità nell’esercizio delle sue funzioni. Evidentemente, si temevano reazioni popolari che avrebbero potuto far affiorare “verità nascoste” per le quali Monti rischiava di brutto. Chi gli ha coperto le spalle dovrà assumersi le sue responsabilità sul banco della Storia che è giudice più inflessibile della magistratura , anche se ancor più lento di questa nell’emettere le sue sentenze. Che comunque arrivano spietate e senza appelli.
Tracciato questo quadro, possiamo anche svelare la motivazioni effettive che produssero la caduta di Berlusconi, certamente non dipendenti dai cucù, dalle pacche sulle spalle, dalle barzellette sconce e, nemmeno, dalle ammucchiate serali. Checché ne affermi la propaganda di regime.
B. fu preso di mira per gli accordi con il Cremlino in materia energetica e per il protagonismo, non autorizzato dal patto atlantico, su mercati interdetti, come quelli iraniano, siriano, algerino e libico.
Per questi palcoscenici i nostri “amici” avevano idee diverse dalle nostre e ce le imposero senza preoccuparsi delle conseguenze.
In particolare, gli stretti rapporti tra Roma e Tripoli (la nostra quarta sponda), snodo geopolitico decisivo tra mondo africano ed arabo, scatenarono le gelosie di Francia, Inghilterra e degli stessi Usa (l’ordine è inverso). Fu la guerra, e fu fatta contro i nostri interessi.
In questo tragico frangente, Berlusconi dimostrò di non aver mai posseduto le caratteristiche dello statista e dopo le iniziali incertezze autorizzò, persino, i bombardamenti contro il socio Gheddafi, con il quale, poco prima, aveva siglato un accordo di risarcimento per i crimini coloniali fascisti. Quest’ultimo andava a vantaggio del popolo libico ma anche delle nostre aziende che sarebbero stata privilegiate negli appalti per la costruzione di infrastrutture. Ancora una volta, il badoglismo fu l’epitome dell’italica piccolezza, con i caccia tricolori che sorvolarono i cieli di un paese alleato ridotto all’istante in uno Stato canaglia per ordine di terzi.
Con quell’atto scellerato il Cavaliere mise fine al suo premierato e alla sua parola che ormai non valeva più nulla. Così disonorato era inevitabile che tutto gli crollasse addosso. Come è puntualmente avvenuto, con i voltafaccia nel suo partito dei “capibastone” e dei ministri, in cerca di fama e ricollocazione.
Stiamo ancora pagando il prezzo di questi complotti e tradimenti incrociati, di cui sono responsabili tutti i partiti dell’arco costituzionale, certamente con colpe diverse ma trasversali. Con gli sciacalli della finanza alle porte (dietro i quali agiscono bestie ancora più feroci) ci vogliono i leoni per difendere il territorio, eppure, anziché i ruggiti s’ode soltanto uno stormir di foglie (di fico). Troppo poco per spaventare l’avanzata famelica della speculazione. Rischiamo davvero di finir sbranati con tutte le agende.