Il giorno di Pasqua bisognerebbe scrivere di cose allegre visto, tra l’altro, che ogni tanto si fa pure vedere un raggio di sole, nonostante le fosche previsioni. Tutti però scrivono, appunto, di cose allegre: io vorrei provare a raccontarvi invece di un mio incubo ricorrente; magari l’operazione è catartica e riesco a liberarmene.
La frequenza dell’incubo è casuale. A volte è innescato da un episodio che ha qualche legame con l’argomento, come nel caso di venerdì notte: in simili occasioni me ne faccio una ragione perché i nessi logici mi rasserenano. Altre volte invece me lo ritrovo nel letto per caso, non riesco a capire da che parte è arrivato e rimango perplessa davanti all’inesplicabile.
Quando mi sono iscritta ad ingegneria, l’ho fatto con la sprezzante presunzione di chi, in anni di scuola, non aveva mai avuto il minimo problema nell’apprendere o nel capire. Studiare mi piaceva e mi dava soddisfazione. Ignorando le suppliche dei familiari che mi si erano attaccati alle caviglie nel tentativo di fermarmi e di farmi ragionare – non si fa ingegneria con quattro concetti di trigonometria, due formule sul moto rettilineo uniforme e una passione smisurata per la storia e la letteratura – ho compilato i moduli e mi sono infilata in un oceano di casini.
Fin dal primo giorno mi sono resa conto che le lezioni erano tenute in una lingua straniera, i libri erano scritti in un’altra lingua straniera e i temi d’esame in un’altra ancora che, per quel che ne sapevo, poteva non essere ancora stata decifrata. Ho impiegato molti anni per trovare la via d’uscita ma il mio mostro personale è stata, senza nessun dubbio, la Fisica. La versione II l’ho portata casa in un paio d’anni, la I mi ha perseguitato per quasi cinque. Ho preso parte ad almeno una ventina di sessioni d’esame perché non sapevo più che cosa altro fare, dopo mesi di esercizi di cui capivo poco, se non sperare nella fortuna di problemi simili a quelli svolti di cui mi ero imparata a memoria la tecnica risolutiva. E quando mi ritrovavo ad avere a che fare con bambini seduti su un’altalena colpiti da un proiettile credevo ci fosse una candid camera nascosta e che qualcuno sarebbe saltato fuori a dirci che era tutto uno scherzo. Gli insegnanti erano sicuri che li stessi prendendo in giro, io oscillavo tra l’ipotesi di aver perso da qualche parte tutta la materia grigia e quella che sarebbe stato bello incontrare qualcuno che si rendesse conto che mi mancava solo la stele di rosetta e me ne fornisse una copia.
Tutto è bene ciò che finisce bene, come disse il poeta: nel mio lavoro evito di fare calcoli complicati e mi sono trovata un ramo d’attività che mi calza come un guanto. Gli anni sono trascorsi e la sensazione di nausea che provavo nell’ultimo periodo prima della tesi ogni volta che mi ritrovavo vicino alla sede di facoltà si è pian piano attenuata. Nelle settimane scorse ho provato a mostrare la chiave di decifrazione che, alla fine, ero riuscita a scoprire ad una universitaria, alle prese con il mio stesso problema: l’esperimento è miracolosamente riuscito ma, puntuale, l’incubo si è ripresentato.
Sogno che non sono ancora laureata, che sto lavorando come ingegnere senza però esserlo: ovviamente mi manca, per concludere, solo l’esame di Fisica I. Quale altro se no? Nell’incubo sono nelle stesse aule, con gli stessi insegnanti che mi vedono, alzano gli occhi al cielo e mi dicono “E’ ancora qui Lei? Non si vergogna?”, che i problemi sono sempre demenziali, che mi sono dimenticata a casa il libretto e non ricordo più nemmeno il numero di matricola, perché sono passati troppi anni, che non so proprio più cosa fare. Mi sveglio sudata, il cuore a mille, vado a cercare il tubo in cui conservo il certificato di laurea, controllo più volte che il nome sia proprio il mio e l’università esistente e legalmente riconosciuta e resto preoccupata per ore.
Ogni tanto penso che, una volta deciso di smettere di lavorare, io dovrei iscrivermi a Fisica pura e provare ad affrontare, con la maturità presunta dell’adulta che sono, il drago una volta per tutte, comunque vada. Il fatto è che mi sembra di aver lasciato qualcosa in sospeso, qualcosa che, nel mio incubo ricorrente, torna di notte dal passato a reclamare attenzione.