di Maria Serra
Le tensioni tra India e Pakistan sono tornate a riacutizzarsi dallo scorso 6 gennaio, quando un soldato pakistano è stato ucciso e un altro è stato ferito dall’esercito indiano nel Kashmir, regione al confine tra i due storici rivali e intorno a cui ruota una disputa da oltre sessant’anni. Secondo l’ufficio stampa dell’esercito pakistano, l’attacco sarebbe avvenuto nell’area di Bagh nel settore di Hajipir del Kashmir sotto amministrazione pakistana, facendo irruzione nel posto di controllo di Sawan Petra, al di là quindi della cosiddetta Line of Control (LoC) che dal 1972 rappresenta la linea di demarcazione tra le due parti (ma che non costituisce la frontiera ufficiale poiché segue le posizioni tenute dagli eserciti al momento del cessate il fuoco del conflitto del 1949). L’azione indiana avrebbe fatto parte di una missione congiunta con la CIA nel Waziristan meridionale e, più precisamente, nell’area di Shaktoi dove, tra l’altro, sono stati uccisi da un drone 9 militanti islamisti presumibilmente legati ai Talebani e al gruppo di Lashkar-e-Taiba. Il governo indiano ha invece negato lo sconfinamento, sostenendo – come dichiarato dal colonnello Brijesh Pandey, portavoce militare a Srinagar – che sarebbe stata l’artiglieria pakistana a bombardare con proiettili di mortaio un villaggio del distretto di Uri (a cui l’india avrebbe risposto con armi di piccolo calibro) per facilitare il passaggio nel territorio indiano di combattenti islamisti: Jaish-e-Muhammad e, appunto, Lashkar-e-Taiba (operante in Pakistan con il nome di Jama’at al Da’wah), formazione fondamentalista che professa un’ideologia sunnita radicale, già responsabile degli attentati terroristici al Parlamento di New Delhi nel 2001 (secondo l’India finanziato dai servizi segreti di Islamabad) e a Mumbai del 2008 (oltre che a Londra nel 2005), e inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato americano. Ma al di là del diretto coinvolgimento o meno da parte del gruppo, che quantunque si inscrive in un complesso di aspetti socio-politici strutturali, si è trattato del primo di una nuova serie di attentati al confine che rischiano di compromettere i faticosi tentativi di riavvicinamento tra i due Stati. Quella tra India e Pakistan nel Kashmir è, difatti, una guerra senza fine, alimentata oggi da fattori che non derivano esclusivamente dalle relazioni bilaterali, dove il più piccolo incidente rischia di provocare un’escalation militare in grado di far esplodere un nuovo conflitto.
Kashmir: un contenzioso territoriale dal risvolto regionale
Mappa del Kashmir, pre e post 1947. Fonte: BBC
Il conflitto per il controllo di quest’area di 81.954 Km2 (che originariamente comprendeva le regioni di Jammu, valle del Kashmir, Ladakh, Baltisan e Gilgit) sorge nel 1947, con la fine della dominazione britannica e all’indomani della divisione tra India induista e Pakistan musulmano, quando l’indecisione del monarca locale Hari Singh (induista regnante su una popolazione a maggioranza musulmana che fino ad allora non aveva avuto tensioni con l’altra componente) se far parte dell’uno o dell’altro Stato generò una rivolta fomentata da gruppi islamici nel distretto del Poonch, richiedendo l’intervento del governo centrale indiano che con l’Instrument of Accession annesse ufficialmente il Kashmir all’India. Il nodo su cui si basa il contenzioso è il momento della sigla dell’atto di unione: secondo Islamabad questo sarebbe stato firmato dopo l’ingresso delle truppe di New Delhi nel territorio (cosa naturalmente smentita dalla controparte), rendendo così nullo il decreto. Da allora la questione si è basata su un concetto di fondo: se per Islamabad il Kashmir è un “territorio disputato”, in cui un eventuale attacco pakistano non sarebbe considerato un’aggressione di tipo interstatale, per l’India si tratta di una “questione interna”, in quanto la regione è controllata dal proprio governo centrale, e qualsiasi azione militare messa in atto da New Delhi al di qua della LoC (lo Jammu-Kashmir), o anche al di là, nel c.d. Pakistan Occupied Kashmir, formalmente non appartenente appunto a nessuna delle due parti, non può essere ricondotta sul piano internazionale.
Il coinvolgimento delle Nazioni Unite – che nel 1948 istituirono una Commissione ad hoc per valutare il ritiro delle forze militari (la United Nations Commission on India and Pakistan, UNCIP) e che l’anno successivo dispiegarono la forza di osservazione United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (UNMOGIP) – non ha impedito negli anni conflitti tra i due Paesi a più alta intensità (nel 1948/49, appunto, nel 1965 e nel 1971), dai quali il Pakistan è uscito sconfitto, soprattutto politicamente: non solo il Pakistan Orientale (l’attuale Bangladesh) riuscì ad ottenere l’indipendenza, ma il Trattato di Amicizia e Cooperazione tra India e Unione Sovietica – e il conseguente potere di veto esercitato da Mosca in seno al Consiglio di Sicurezza – ruppe definitivamente le speranze di Islamabad di riaprire il contenzioso a livello internazionale. Ma le dinamiche che si sono nel tempo sviluppate a latere del singolo caso territoriale non hanno ugualmente inficiato la capacità del Pakistan di esercitare forme di contenimento nei confronti dell’India.
La compartecipazione nelle strategie regionali di counter-terrorism patrocinate dagli USA dopo il 2001 (insieme con la svolta filo-occidentale di Islamabad) e, soprattutto, le vicendevoli preoccupazioni circa il potenziamento dei rispettivi arsenali nucleari (sono difatti impressi nella mente i test atomici del 1988 e del 1998 nello Stato indiano del Rajasthan e nelle aree pakistane del Chagai Hills) hanno spinto a perseguire quanto più possibile – nonostante l’ennesima escalation di violenze del 2001 e i crescenti episodi di terrorismo di matrice islamica ricondotti ai gruppi cui si accennava poc’anzi – sulla strada dei negoziati di pace. Certo è che il Pakistan di ora non è quello di trent’anni fa e il generale “Nuovo Grande gioco” dell’Asia Centrale – in cui entrano in scena altri attori come USA, Cina e Russia – ha indotto i due Paesi a nuove considerazioni di carattere geopolitico che non si limitano al solo caso del Kashmir. Il costante rafforzamento della partnership militare tra Islamabad e Pechino (quest’ultima tra le altre cose destina il 40% delle proprie esportazioni belliche all’alleato e ne sostiene ferventemente il programma nucleare, fornendone know how) – con cui persistono contenziosi transfrontalieri [1] oltreché motivi di frizione derivanti sia dalle visioni geopolitiche nell’Oceano Indiano e nel Sud Est asiatico sia dalle strategie di sicurezza nazionale, energetica ed economico-commerciale – condiziona pesantemente la politica estera di New Delhi, inducendola a non allontanarsi eccessivamente dal tracciato della diplomazia. La cosa vale sia sul piano della realizzazione delle ambizioni in ambito continentale e sub continentale, sia su quello della controversia territoriale.
Anche sulla base di queste considerazioni di deterrenza – che sono state oggetto di alcune circostanziate intese raggiunte dopo il 1988 [2] – e di esigenza di sicurezza nazionale in un contesto geostrategico asiatico in cui i rapporti sino-statunitensi continuano ad oscillare tra reciproca diffidenza e mutua cooperazione, si spiegano infatti i negoziati di pace sul Kashmir, i quali – dopo l’eclatante fallimento del 2008 – hanno conosciuto nuovo impulso nel 2011, trovando (a quanto pare apparente) coronamento lo scorso settembre con l’accordo in materia di visti e di libera circolazione dei cittadini attraverso il valico di frontiera di Wagah/Attari.
Le variabili in gioco
Prima di delineare le possibili evoluzioni della questione, occorre fare tre ulteriori precisazioni, due delle quali già implicitamente accennate, l’altra necessaria per comprendere anche il contesto territoriale di riferimento. La prima riguarda i diretti interessi che la Cina matura sul contenzioso: Pechino, difatti, rivendica e occupa dal 1962 le aree settentrionali dell’Aksai Chin, l’altopiano/corridoio strategico che mette in collegamento il Tibet con lo Xinjiang e che, pur rivendicato dal governo di New Delhi, da allora è rimasto tutto sommato stabile. Né la Cina d’altro canto nutre intenzioni riguardo ad una definitiva soluzione di questa e della disputa principale, poiché concedere qualsiasi forma di autodeterminazione alimenterebbe le aspirazioni indipendentiste tibetane.
Composizione religiosa del Kashmir
C’è infine un terzo aspetto – che va ben oltre la simbologia e i tratti sociali – che connota ulteriormente la questione: il Kashmir rappresenta il bacino idrografico principale dell’Indo (dall’estensione di 1,16 milioni di Km2), il principale fiume del subcontinente, che nasce in Cina, attraversa lo Jammu-Kashmir e si sviluppa pienamente nel Pakistan, costituendo un’importante arteria di comunicazione in un territorio pressoché montuoso. L’accesso alle risorse – dopo un iniziale periodo di partnership nel quale furono promosse e realizzate reti di dighe e di centrali idroelettriche per lo sfruttamento equo e comune – ha rappresentato dunque un ulteriore motivo di attrito. Dopo il conflitto del 1965 entrambi i Paesi hanno portato avanti politiche unilaterali di sfruttamento acquifero.
Scenari
Le opzioni possibili per porre termine al contenzioso vanno dal riconoscimento dell’attuale status quo [scenario 1 - immagine di sopra], alle ipotesi di nuove demarcazioni territoriali, passando per le “classiche” soluzioni di definitiva annessione all’uno o all’altro o, ancora, di indipendenza. In quasi tutte le previsioni la LoC difficilmente diventerebbe l’effettiva linea di confine, perché semplicemente dipendente dagli schieramenti mantenuti sessant’anni fa orsono; inoltre, nessuno di questi contempla sostanzialmente i territori sottoposti alla Cina, di fatto considerati dai più ormai fuori dai giochi.
Uno scenario 2, auspicato da Islamabad (annessione del Kashmir al Pakistan), compatterebbe sicuramente la popolazione musulmana, ma rischierebbe di lasciare irrisolte la questione delle minoranze che, di converso, creerebbero problemi al governo centrale sulla stregua di quanto attualmente avviene nei confronti dell’India. Tra l’altro, un possibile referendum per l’inglobamento non terrebbe conto delle spinte indipendentiste di cui sopra.
Il terzo scenario sarebbe naturalmente quello di un’annessione all’India, comprensiva dei territori attualmente sotto il controllo di Islamabad. Ma anche questa opzione sembra irrealizzabile quanto la precedente, poiché in un modo (referendum opzionale) o nell’altro (convergenza della popolazione musulmana nello Stato interconfessionale, con le conseguenze di complessiva instabilità dei Paesi islamici) ne verrebbero sacrificate le istanze della popolazione locale.
Il quarto scenario, relativo ad un’indipendenza della regione sia nella parte indiana che in quella pachistana, risulta pressoché impossibile – perché nessuno dei due Stati sarebbe disposto ad accettalo – quanto effettivamente poco auspicabile, poiché un’autodeterminazione rischierebbe di innescare un vortice di richieste simili e far sfociare l’intero subcontinente indiano in una sorta di processo di balcanizzazione. Sarebbe un territorio d’altra parte realmente governabile? Nemmeno la comunità internazionale correrebbe il rischio di avere un Paese instabile e sottoposto a continue pressioni esterne in un’area dall’alta, come abbiamo visto, rilevanza geopolitica.
Il quinto e sesto scenario costituiscono variabili del precedente. La prima ipotizza un “piccolo Kashmir” indipendente, formato dalla Valle del Kashmir (indiana) e dall’Azad Kashmir (pakistana); la seconda un Kashmir indipendente limitatamente alla Valle del Kashmir. Se la prima opzione offre maggiore omogeneità dal punto di vista della composizione religiosa, l’altra rispecchierebbe maggiormente le istanze della popolazione di sganciarsi dal controllo indiano senza cedere a quello pakistano. Sono sicuramente le due soluzioni più attuabili, proprio perché limitate ad una zona circoscritta, e che solleverebbero i due Stati dal compito di raggiungere una soluzione omnicomprensiva, ma che richiederebbero in ogni caso una mediazione e un’assistenza (anche economica) da parte di Stati esterni, aspetto che non si sa fino a che punto tutti i Paesi coinvolti nel gioco dell’Asia Centrale sarebbero disponibili ad accettare. Una piccola variante sul caso dell’indipendenza della Valle del Kashmir potrebbe essere rappresentata dalla possibilità di una maggiore autonomia della stessa piuttosto che un autogoverno vero e proprio: l’India non ne perderebbe il controllo, il Pakistan ne potrebbe richiedere un protettorato “congiunto” per salvaguardarne l’integrità politica e lo sviluppo economico.
Infine un settimo e ultimo scenario potrebbe essere costituito da una demarcazione territoriale lungo il fiume Chenab, che implicherebbe una consegna della maggior parte dei territori al Pakistan (garantendo omogeneità religiosa), eccetto lo Jammu-Kashmir, dalla valenza economica in termini di accesso diretto alle acque dell’Indo e dal valore interconfessionale, che sarebbe così annesso all’India. Ma in tal caso New Delhi dovrebbe essere disposta a rinunciare volontariamente a grosse fette della propria estensione.
Come si vede, è difficile rinvenire per la questione del Kashmir un’unica chiave di lettura. Vero è che la dimensione prettamente territoriale si sta sempre più trasponendo a livello regionale: le rivolte separatiste, il radicalismo islamico che ricade infine nella complessiva lotta al terrorismo, il problema delle proliferazione nucleare ne hanno cambiato la natura e la prospettiva, marginalizzando evidentemente il tema dell’identità e, quindi, le effettive richieste della popolazione (ricongiungimenti familiari, separatismo, democratizzazione, apertura agli scambi commerciali e rilancio economico). Piuttosto, al di là della difficoltà delle relazioni interstatali, una base da cui partire potrebbe essere il rapporto che le singole aree – e poi il Kashmir tutto – hanno con i poteri centrali di New Delhi e Islamabad. Il contenimento interno di fenomeni degenerativi e destabilizzanti e il ritorno sul tavolo delle trattative con un background di impegno ai fondamentalismi territoriali, non potrà che giovare alla soluzione del singolo nodo ma anche ad una generale stabilizzazione degli equilibri geopolitici dell’Asia Centrale con ricadute positive sul processo di distensione. Nel breve periodo restano naturalmente da vedere gli esiti elettorali (che in Pakistan dovrebbero presumibilmente tenersi in primavera; in India tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014), mentre nel lungo quale sarà il peso specifico dello spostamento strategico statunitense nel pivot Asia, della sua partnership con l’India (in relazione anche alla Russia) e naturalmente della contro-risposta cinese.
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)
[1] Aksai Chin a parte, come vedremo, ci riferiamo qui a quelli che vengono generalmente considerati all’interno della questione del Tibet meridionale: l’Arunachal Pradesh e la valle del Tawang.
[2] Si fa qui riferimento all’accordo del 1988 sulla mutua rassicurazione di non attacco alle installazioni o ad altre facilities nucleari; a quello del 1991 sulla reciproca notifica delle esercitazioni militari; a quello del 1992 sul divieto di utilizzo di armi chimiche.
[3] Tra i gruppi indipendentisti più importanti ricordiamo il Jummu and Kashmir Liberation Front (JKLF), l’Hizb-ul-Mujahideen e lo Jama’at-e-Islami: formazioni dalla tendenza islamica moderata, sono state riunite tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta prima sotto il Muslim United Front e successivamente sotto il Kashmir Liberation Movement, fino alla fondazione dell’All Party Hurriyat Conference (APHAC), piattaforma disposta a dialogare per arrivare alla convocazione di una conferenza tripartita.
Photo credit: BBC news – In depth: The future of Kashmir