Sarà che siamo gente con gli occhiali spessi e la pancetta da cuménda. Sarà che a noi, superato quel fanatismo disperato da equipollenza fan-band (mi sento come loro quindi è giusto che li ascolti), interessa sempre più esplorare le novità seppur entro quei limiti che le ragioni dei tuoi 28 anni ti impongono (sennò impazzisci). Ma a me il nuovo degli Indian piace veramente un sacco. E posso dirlo in virtù di tutta un’esperienza di ascoltatore di sludge/doom limitata forse a poche esperienze ma tutte band della madonna, però. E’ quindi bellissimo alla soglia dei trent’anni scoprirsi novellini, molto più che giocare ai dilettanti in ansia, perché questo ti da tutta una genuina inconsapevolezza che l’ascoltatore professionista ha smesso da tempo per garantirsi la tipica conoscenza faustiana da fine dei giorni.
E quindi è vero che Guiltless era meglio in quanto a forma canzone, ma anche che il nuovo disco emana, per tutto quello che ho scritto sopra, un fascino che mi rende l’ascolto delle canzoni sempre più piacevole. Un disco intenso ma paradossalmente meno spossante e sfibrante del precedente, che gioca a spostare il grosso del disturbo auditivo in una traccia di solo rumore bianco, e a spolverare, ora con modestia, ora abbondantemente, droni su droni sin dalla prima traccia.
Ah, poi una cosa. Che i dischi uno li ascolti ormai solo su supporto digitale è da tempo un fatto più che pacifico. Che i promo però debbano arrivarti appena a 192 kbps ma con la pretesa di avere suoni scintillanti, questo fa riflettere. Roba che ti viene voglia di prendere tutta la discografia dei Grief e passartela a 128, giusto per fare pendant con le cuffie scassate del lettore. Non credo che alla Relapse questa polemica interessi, ma mi pare una contraddizione squartante quella di possedere in mano le chiavi di un genere totalmente sdoganato presso il grande pubblico avendolo passato ammodìno e per la tintoria sotto casa, quando questo dovrebbe sguazzare nell’originale piombo lo fi che lo contraddistingueva. Meditate gente, meditate. Forse è solo segno che il pilotaggio dei gusti da parte delle etichette (che può non piacere affatto ai più sospettosi) è cosa ormai accettata e una certa antropologia del genere del tutto tramontata.
Vale per tutto, suppongo anche per i generi più tradizionalisti e, volendo, più conservatori. Accade, per esempio, che quella che poteva sembrare un’evoluzione musicale appena vicina al black finisce per riverberarsi appena in From All Purity in deboli increspature sonore, le cui radici sono appena rintracciabili eppure riconducibili nient’altro che a quei due-tre generi.
E per finire: a parte i droni nell’aria (roba che vi parrà che il lettore stia friggendo in tasca), la voce si è fatta più stridula (una specie di karaoke meshugghiano, ma in falsetto) ma anche tanto più naturale. La cifra esistenziale di questo disco è del tutto spostata verso l’umano, il senso di disperazione incontrollata di Guiltless lascia spazio a un dolore animale più empatico. La batteria, secca ed essenziale, regge tutto l’affare mentre il riff svanisce, perde il comando della band. In due parole, ed è forse proprio questo il passo in avanti compiuto dalla band di Chicago, il risultato è un po’ ridurre le architetture per guadagnare atmosfera.
Resta quella traccia lì, Clarify, telefonata in tutti i sensi: un po’ te l’aspetti (quattro minuti di rumore bianco ormai non te li risparmia nessuno), un po’ pare che ti stia contattando dall’altra parte del mondo e via walkie talkie un koala bloccato nel traforo del San Gottardo. Pretenziosa e involontariamente comica, ma il disco è tutto bello.
Ciao. (Nunzio Lamonaca)