Infarto e depressione

Da Racheleceschin

I disturbi cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte e disabilità in Europa. Le Sindromi Coronariche Acute (SCA) come l’infarto del miocardio e l’angina instabile, nel 20% dei casi si associano al disturbo depressivo maggiore.  Sembra infatti che ci siano delle correlazioni positive tra il funzionamento circolatorio/cardiaco e la depressione, soprattutto se il cuore ha già sofferto. La comparsa di sintomi depressivi in seguito a SCA aumenta quindi il rischio che si produca un secondo infarto. Il rischio è direttamente correlato alla gravità dei sintomi depressivi: da uno a due volte maggiore per la depressione minore e da tre a cinque volte per la depressione maggiore. 

Questo significa che un significativo abbassamento dell’umore, protratto nel tempo potrebbe aumentare il rischio di avere un infarto fino a cinque volte.

Non è però necessario che si tratti di una vera e propria depressione. Numerosi studi sottolineano infatti come la demoralizzazione possa essere un fattore di rischio importante e potrebbe causare un altro scompenso.  ”E’ stato infatti provato “ spiega la dott.ssa Stefania Maggi “ che in soggetti colpiti da infarto al miocardio la concomitante o conseguente presenza di sintomi depressivi aumenta il rischio di progressione della malattia e di mortalità rispetto a chi, con lo stesso quadro clinico, non soffre di depressione. Soffrire di depressione diagnosticata o presentare sintomi depressivi pur essendo sani espone maggiormente a rischio di malattie coronariche.

Secondo un recente rapporto della Harvard School of Public Health di Boston, inerente uno studio che ha visto coinvolte 300.000 persone, la depressione è direttamente legata ad un rischio notevolmente aumentato di sviluppare un infarto. La depressione è molto diffusa nella popolazione, si stima che il 5,8 per cento degli uomini e il 9,5 per cento delle donne sperimenti almeno un episodio depressivo nell’arco di un anno. Nella fattispecie, la ricerca ha rivelato che la depressione è legata ad un rischio aumentato del 45% di infarto generale, 55% di aumento del rischio di infarto fatale e un 25% di aumento del rischio per l’infarto ischemico.

Da circa tre anni mi occupo di valutare il sentimento di demoralizzazione che emerge in seguito a uno scompenso cardiaco. Il mio intervento è puntuale e standardizzato. Si tratta di applicare il modello cognitivo comportamentale (CBT), strutturato in 12 sedute, e lavorare con i pazienti su obiettivi specifici volti al ritrovare una qualità di vita soddisfacente nonostante l’inferno dell’infarto. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è un trattamento di provata efficacia per la depressione (almeno quanto l’imipramina)
I pazienti differiscono per età, estrazione sociale, grado di istruzione, responsabilità lavorativa, contesto famigliare, familiarità per la malattia. In alcuni casi la loro storia, l’anamnesi, non presenta nessuno dei fattori di rischio annoverabili tra quelli comuni all’infarto. Trasversalmente ho però notato altissimi livelli di stress. L’impressione è che le richieste dell’ambiente li fagocitino in un circolo di attese e promesse alle quali non riescono a sottrarsi. La reazione a queste pressioni può causare un blocco, una sensazione di incapacità, inadeguatezza e impotenza. Una miccia che potrebbe scatenare una reazione depressiva. Pressioni familiari, lavorative, etiche e morali ci incastrano in una vita che diventa troppo rigida e con standard troppo alti. Il cuore pompa fin che può, ma a un certo punto si affatica e obbliga a darci un taglio.

L’intervento, permette al paziente di riacquistare la propria sicurezza e le proprie risorse. Aumentare il senso di autoefficacia permette di padroneggiare l’ambiente e le relazioni in modo più efficace, per non sentirci schiacciati dalle richieste esterne e trovare il nostro posto nel mondo, adatto alle capacità e caratteristiche di ognuno.

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