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Ingiustizie: "I furbetti del fallimento"

Creato il 11 aprile 2015 da Tafanus

Il 2014 è stato un anno record per il numero di imprese chiuse. Un fenomeno su cui lucrano anche imprenditori disonesti. Con un danno di 200 miliardi per fisco e fornitori. Ma ora qualcosa può cambiare (di Gloria Riva - l'Espresso)

Espresso

Ha il cuore in gola, Rita Tronchin, ogni volta che chiude il portellone del camion carico di maglie e golfini. «Mi chiedo: stavolta mi pagheranno?». Rita, titolare di una stireria-finissaggio a Martellago, nell'entroterra di Venezia, è incappata per tre volte nel fallimento di propri clienti, tre sberle che l'hanno costretta a tagliare il personale - da 22 a 14 addetti - e a vivere nell'angoscia.

«Il guaio più grosso è iniziato nel 2008, con una fattura da 242 mila euro mai pagata da un maglificio della zona; il cliente è andato in concordato e la mia impresa non è stata considerata artigianale, quindi non ci hanno ammesso tra i creditori privilegiati». Per sperare di recuperare qualche quattrino Rita dovrà aspettare il 12 maggio, quando si discuterà la causa di fallimento dell'azienda che non l'ha mai pagata: «Ma temo che non ci sarà più niente, per noi». Mentre il marito ha venduto tutto quel che aveva, i padroni del maglificio inadempiente hanno riaperto lo stesso business all'estero. Negli altri due casi, la Tronchin ha recuperato tra il 7 e il 10 per cento delle spettanze. «Nell'ambiente mi chiamano "la sopravvissuta"», racconta con autoironia.
Di vicende come questa ce ne sono migliaia, in giro per l'Italia. Come quella della Cremonini di Pescarenico (Lecco). Anche l'azienda lombarda di carpenteria metallica ha fronteggiato tre fallimenti, l'ultimo pochi giorni fa, senza essere riconosciuta come artigiana. «Ma noi siamo in nove, a lavorare!», si accalora il patron Daniele Riva, che attacca i concordati in bianco: «Sono una porcheria: le grandi aziende lo avviano, congelano i debiti e alla fine non pagano». Stesso spartito per Fabrizio Chelucci, padrone dell'omonima ditta livornese che opera nella manutenzione di navi e impianti industriali. Tra i debitori di Chelucci - che nei momenti d'oro aveva 27 dipendenti, adesso quattro - ci sono Lucchini, Lencioni Costruzioni e parecchie società cantieristiche labroniche. «Dovrei incassare un milione di euro, mi sono insinuato nei fallimenti ma so già che prenderò cifre ridicole. In compenso dovrò ridare, in dieci anni, il milione di debiti che ho contratto con le banche per tirare avanti mentre gli altri non mi pagavano, ed Equitalia, nonostante io non abbia debiti con fornitori e dipendenti, mi ha sequestrato i conti correnti. Se dai fallimenti mi arriva un centesimo se lo prende Equitalia».
BENTORNATO FALSO IN BILANCIO - L'anno scorso oltre 15 mila imprese sono fallite. Un record. Con pesanti ripercussioni sull'occupazione: le 83 mila società che tra il 2008 e il 2014 hanno aperto una procedura impiegavano quasi un milione di addetti, e soltanto nel 2014 le imprese fallite davano lavoro a 175 mila persone. Ci sta, che molti alzino bandiera bianca, quando l'economia arranca. Nascite e decessi sono fisiologici. Ci sta meno che i fallimenti e i concordati d'ogni tipo lascino in braghe di tela migliaia di fornitori e un conto salatissimo per le casse dello Stato. Sono stimabili in almeno 200 i miliardi di euro di crediti vantati da banche, fornitori dipendenti ed erario in seguito a fallimenti e concordati aperti. «Al 30 giugno 2014 erano 20,2 miliardi soltanto al tribunale di Milano, in aumento di 5,7 miliardi nell'ultimo anno», rivela il sostituto procuratore di Piacenza, Roberto Fontana, a lungo giudice delegato della Sezione fallimentare del tribunale meneghino.

Per il 40 per cento, i crediti sono erariali e previdenziali, dunque in capo allo Stato. Con il 25 per cento a testa inseguono fornitori e banche. Il restante 10 spetta ai dipendenti: sul Tfr e gli ultimi tre mesi di stipendio interviene però il fondo di garanzia dell'Inps, dunque pure questa fetta è sulle spalle dello Stato, che quindi della stratosferica somma di 200 miliardi è creditore per la metà. Il ritorno del reato di falso in bilancio, che era stato depotenziato nel 2002 e il governo Renzi ha inserito nel decreto legge "anti-corruzione", secondo i magistrati va nella direzione di debellare i comportamenti fraudolenti. Ma non basta. «Le "stecche" si fanno con le omesse dichiarazioni dei redditi e le fatture false. E tra cinque milioni di società, ce ne sono ben 3,5 milioni che il bilancio non sono tenute a redigerlo», sottolinea Walter Mapelli, sostituto procuratore a Monza, con una lunga esperienza di reati finanziari. Sul piatto c'è pure la rivisitazione dell'intera materia fallimentare. A fine gennaio, il ministero della Giustizia ha istituito una commissione, presieduta da Renato Rordorf, per razionalizzarne la normativa. Tra i suoi compiti, uno dei più delicati riguarda l'individuazione di misure idonee a «incentivare l'emersione della crisi». Già, perché troppo spesso le stalle vengono chiuse quando i buoi sono scappati. Tutto si gioca sulle cosiddette "misure d'allerta".
BASTEREBBE COPIARE L'ESEMPIO FRANCESE - «Analizzando i bilanci del 2008-2012 è emerso che l'87 per cento delle imprese già tre anni prima di chiedere l'ammissione al concordato si trovava in situazione di alta probabilità di fallimento ossia, in sostanza, in situazione d'insolvenza. Mentre, pochi mesi prima, i bilanci davano l'idea di aziende sane, o comunque non in dissesto», denuncia Fontana. Significa che i problemi erano stati mascherati. Così, nel 90 per cento dei fallimenti i normali creditori, che per legge sono definiti "chirografari", ma anche parte dei privilegiati, tipo gli artigiani, dalla procedura non porteranno a casa un euro. Ecco perché, su questo fronte, da anni i magistrati spingono per copiare la Francia, dove vige il sistema più efficace per l'emersione tempestiva delle crisi: appena smette di pagare tasse e contributi, una società viene segnalata ai tribunali di commercio, che la convocano per capire se esiste la volontà di risanarla.
«In Italia, l'introduzione del "campanello d'allarme" è stata contrastata per motivi ideologici, in nome dello slogan "meno giudici, più mercato", ma anche e soprattutto per la difesa di interessi specifici», dice Fontana, riferendosi soprattutto alle banche. Che, di fatto, un meccanismo d'allerta già ce l'hanno, la Centrale Rischi gestita dalla Banca d'Italia. «Basterebbe renderla pubblica per tutti i creditori», propone il magistrato, ponendo fine a quella "asimmetria informativa" che favorisce le banche, le prime a scoprire che un'azienda sta andando male, due-tre anni prima degli altri. Spesso, tra l'altro, le banche hanno garanzie su beni che i soci tengono fuori dalla società operativa. E quando questa va nei guai, qualcosa recuperano sempre, grazie alle garanzie "esterne" all'attività della ditta allo sbando.

Nel mirino dei critici c'è anche il concordato, rivisitato nel 2006, quando fu tolto l'obbligo di rimborsare almeno il 40 per cento. Risultato: molte procedure si chiudono con percentuali di rimborso irrisorie. «L'Italia non è un Paese amico dei creditori, che dovrebbero avere voce in capitolo in tutte le procedure e invece non contano nulla», è l'analisi della società di consulenza AlixPartners, leader mondiale delle grandi ristrutturazioni, da GM a Kodak: «Le norme sono orientate alla continuità aziendale ma punitive per i creditori». Cambierà qualcosa? Di certo, la posizione di Confindustria è ora meno rigida, anche perché molti associati sono vittime di imprenditori disonesti, che operano indisturbati e mettono in ginocchio la concorrenza. Peraltro, non solo non pagano le tasse, ma s'intascano pure l'Iva che non versano mai, truffando ulteriormente lo Stato, e mandano sul lastrico i fornitori. Con conseguenze anche tragiche, come ha raccontato in un libro di successo Serenella Antoniazzi dell'Aga, aziendina veneziana che di mestiere leviga il legno. Per tre anni viene beffata da una piccola multinazionale friulana che non onora le fatture e che nel 2013 fallisce, riprendendo però a produrre mobili con un nuova società. «Ci dovevano 300 mila euro, ho cominciato a non poter pagare più i contributi né le tasse», racconta lei, che arriva a meditare il suicidio, come tanti colleghi. Poi trova la forza di raccontare la sua storia a "La Nuova Venezia", scrive il libro "Io non voglio fallire" (editore Nuovadimensione) e diventa un simbolo della rivolta dei fornitori gabbati.
Gloria Riva
1002/0630/1330 edit

 


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