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Inizio dai ricordi

Da Flavialtomonte

Inizio un nuovo percorso, ma prima di raccontarlo, rispolvero un vecchio raccoglitore di racconti e da questo ne sfilo uno in particolare preannunciato come un lungo e caro racconto e, più tardi, interrotto. Lo riscrivo qua, con tutta la sua grammatica e la sua intenzione, con i miei pochi anni di età; lo scrivo perché ho intenzione di continuarlo:

Sembrava quasi che si vergognassero – non so di cosa ma si guardavano attorno per qualche motivo di quelli disposti nell’elenco degli sfacciati - avevano occhi che pure se piccoli, diventavano grandi, rotondi, sospetti, colpevoli. I loro passi erano molto simili a quelli di uno scoiattolo pronto a svignarsela in caso di pericolo. Eppure eravate voi. Eravate tutto quello che cercavate – invano – di essere. Disposti tutti in ordine, dietro panche di legno come devoti a un Dio conosciuto solo per sentito dire, ma ci credevate. Eccome! Tutti in simbiosi. Le vostre voci mescolate, i vostri cori, le vostre suppliche. Chi a passo svelto annunciava il ritardo; chi a passo deciso sembrava prender posto ma in realtà non era convinto che lo occupasse; chi col bastone si faceva spazio e si zittiva in preghiera; chi preoccupato; chi veramente riconoscente a ciò a cui stava partecipando. 
Mi sono fermata a meditare un attimo quel giorno, quando forse avrei dovuto provare anche io a crederci come facevano tutti – che poi, che ci credevano davvero sembrava irrilevante, tanto erano lì, e non lo davano a vedere qualora non fosse stato così – eppure ho offerto un po’ di posto a tante cose, messe lì in fila anche loro; avevo un muro di fronte e non sarei riuscita a vedere ma avrei ascoltato.
Era più forte di me, più forte di un mare in tempesta quando si porta via persino l’asfalto, più forte di quando ti volti istintivamente sentendoti chiamare, più forte della tua rabbia, del tuo essere e del tuo esserci.
Osservavo meticolosamente voi e voi forse non ve ne siete mai accorti, e forse perché, infondo, cosa volete che importi a degli sconosciuti di tutta la mia psicologia? 
Sarò ripetitiva oppure anche io sfacciata, ma vi ho guardati bene. Dentro e fuori. Da fuori avevate tutta l’aria di essere perfetti nei vostri strani modi di fare. La signora che sedeva di fronte a me aveva un passo svelto, un paio di tacchi poco rumorosi; una giacca che la copriva tutta: lasciava fuori solo la testa, e quegli occhi verdi e rapidi che si guardavano attorno. L’anziano di fianco era un uomo tranquillo, o forse è l’aria dei nonni che è standard vuoi per la severa educazione impostigli, vuoi per saggezza, vuoi per umiltà, vuoi per vecchiaia, ma vuoi pure per cattiveria. Questo mistero non era ancora svelato o forse sarebbe stato l’ultimo dei misteri da svelare al mio cervello poiché ce n’era un altro ancora più preoccupante quel giorno. Forse comune forse ignorante, per me era interessante. E scusate le rime adesso, non mi sono mai occupata delle rime baciate, prediligo le spiegazioni in prosa. 
Ho dovuto aspettare che le mie ossa crescessero per capirlo. Sono dovuta arrivare fin qua.
Mi siedo dietro quelle panche, perché credo – o forse non più – che serva una lunga preghiera. Seguo attentamente ogni cosa. Non mi lascio scivolare nessuna frase, nessuna vocale, nessuna congiunzione. Le dispongo in ordine dentro la testa. Posiziono ogni pensiero come pedine, a scacchi, e mi tengo pronta alla sfida. La prima pedina era già stata mossa, adesso toccava a me. 
Ma è quest’altro che mi delude: questo parlare di tutto e di niente. Questo ripetere e dare consigli. E questo sbagliare e fare sbagliare. Precisamente, a quest’idea strana se ne affiancava un’altra che, seppur strana, mi confortava ogni sera. Oggi non mi conforta più. Ma se solo uno, uno solo, dei non-presenti, avesse scelto di sacrificare se stesso per crederci, allora sappia che ne ha riversato un contribuito: far crescere tante panche come questa. 
 

Tratto da un mio vecchio racconto

 


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