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Il film si palesa con vigore fin dall’inizio – bare che contengono bambine, tremendo – come un’allegoria della fanciullezza. La simbologia che costituisce l’intero flusso visivo delinea contorni chiari e sfuggenti allo stesso tempo; le domande si stratificano: chi sono tutte quelle bimbe? Dove si trovano? Perché sono lì? La regista è abile nel tenere lo spettatore sul filo del rasoio edificando un’invisibile cappa tensiogena che procede per accumulo, mistero dopo mistero domanda dopo domanda: non accadrà mai niente di doloroso alle protagoniste eppure la sensazione è che ciò possa succedere da un momento all’altro.
Le risposte ai vari interrogativi possono essere dedotte dalle pinze dell’ermeneutica, ed è più o meno condivisibile vedere in Innocence un percorso socio-antropologico preso e ridotto in scala dalla realtà. Il tragitto formativo di ogni essere umano si gioca all’interno di modelli qui riportati in maniera proteiforme: l’educazione diventa uno dei metodi per poter emergere, per poter andare via, diventare brave ballerine comporta la possibilità di essere scelte dalla capoccia della scuola; obbedire è la regola principale per non rischiare punizioni, si deve seguire un percorso preciso (le lampade sopra il sentiero), si deve diffidare da ciò che è oltre il muro di recinzione.
A ben vedere non c’è niente di particolarmente negativo in tutto questo, si tratta soltanto di una tappa esistenziale che deve essere affrontata per passare a quella successiva. La perdita dell’innocenza è un viaggio che va dalla scoperta di sé (alla fine vediamo Bianca sfiorarsi l’interno coscia) alla scoperta del sesso opposto, rappresentata molto bene dal finale in cui per la prima volta si intravede un maschio dentro ad una fontana che schizza i suoi getti d’acqua verso l’alto in una scena dalla non casuale rievocazione fallica.
La Hadžihalilović si trova particolarmente a suo agio nelle ambientazioni esterne dimostrando un talento visivo di prim’ordine, straordinarie le piroette intorno ad un albero al pari dei carrelli all’indietro che precedono le corse a perdifiato di alcune bambine. Inoltre vanno segnalati gli spunti geniali delle bare e dei treni come luoghi di passaggio fra un’età e l’altra.
La mia cineblogger-deformazione ha visto nell’inizio di questo film un frammento filmico, delle bolle sott’acqua, similare ad un altro presente in Vinyan (2008). Le analogie fra le due pellicole ci sono, ma ce n’è una che si presta volentieri come chiave interpretativa: sia questo che il film di Du Welz sono opere che aldilà di ciò che raccontano segnano intime traiettorie personali.
Anche In-nocence riprende ciò che c’è dentro, nell’interno, nel profondo.
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