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Inquietudine: il film del libro a una prima a Lisbona
È noto che uno dei progetti rimasti nel cassetto di Sergei Eisenstein riguardava un film tratto dal “Capitale” di Marx. L'idea suona più bizzarra oggi che un'ottantina d'anni fa, e non per il calo di popolarità del filosofo tedesco. Il cinema cresceva allora con le avanguardie storiche; prima di diventare così prevalentemente narrativa (fino alla recente ossessione per le sceneggiature di ferro e le tecniche di costruzione del plot insegnate e certificate da esami ad hoc), la settima arte si guardava intorno, carezzava sogni di espressione poetica e, perché no?, saggistica. La sequenza di immagini non doveva per forza essere una... sequenza, cronologicamente corretta, magari spaginata eppure sempre ricomponibile (come nel celebrato Citizen Kane di Welles), ma una giustapposizione metaforica capace di sfociare nel concettuale puro, come nelle scritture ideografiche. Essendo la storia di tutte le arti fatta anche di idee mancate, qualcuno una certa idea di cinema sperimentale la coltiva ancora. E a Lisbona, il 29 settembre scorso, c'è stata la prima di un film che, quanto a follia, raggiunge e supera quella del regista sovietico: Filme do Desassossego (“film dell'inquietudine”) è infatti una pellicola di João Botelho basata sul libro quasi omonimo di Fernando Pessoa.
Già “Il libro dell'inquietudine”, che Pessoa immagina scritto da un impiegato di nome Bernardo Soares, rappresentava una specie di sfida ossimorica, letterariamente nuovissima: raccontare una “autobiografia senza fatti”. La vita di un uomo amputata degli eventi esterni e assorbita, riassunta, spremuta negli inafferrabili tracciati di un'intelligenza sempre mobile, vigile. Insonne. Ne uscì un meraviglioso coacervo di frammenti, tutto ripiegato verso l'interno, molto più di certi libri coevi che in qualche modo gli somigliano, come “La coscienza di Zeno” (dotato comunque di un arco narrativo tutt'altro che labile), o “L'uomo senza qualità” di Musil. Come quest'ultimo, il libro di Bernardo Soares è inquieto anche perché non trova quella pace dei sensi creativi che coincide con la pubblicazione. Resterà il libro non pubblicato e non pubblicabile per eccellenza, scritto fino alla morte e lasciato in fogli sparsi che oggi sono croce e delizia degli studiosi, ciascuno dei quali confeziona a suo modo quest'opera aperta.
Un film di due ore su un libro infinito è necessariamente una lettura guidata, una delle tante possibili che il regista ritaglia per sé e per il pubblico. Ma la sfida più difficile stava nel dar corpo a un testo assolutamente immateriale. A cominciare dal protagonista, quel Bernardo Soares che uno s'immagina anche fisicamente simile a Pessoa e che qui invece ha un'aria da eroe byroniano (andatura zoppicante inclusa), sguardo vitreo e spettinato, di certo attraente ma forse fin troppo bello di fama e di sventura nel suo romanticismo non tutto interiorizzato. Botelho, che torna al Pessoa del suo primo lungometraggio (“Discorso chiuso”), conferma una certa curiosità per quella che con Derrida potremmo chiamare la “scena della scrittura”. E mentre in quel film aveva mostrato un poeta freddo e distaccato anche quando, sulla macchina da scrivere, componeva le grandi odi futuriste del focoso eteronimo Álvaro de Campos, qui presenta un Bernardo Soares che scarabocchia febbrilmente la sua prosa così lucida e rassegnata. Interpretazioni...
Ma al regista il lavoro sfugge completamente di mano quando trasforma le parole di Pessoa/Soares, dure e tagliate come diamanti, in chiacchiere da ristorante alla moda o invocazioni lanciate ad occhi sbarrati sulla macchina da presa. Il film senza intreccio andava benissimo per un'autobiografia senza fatti, ma bisognava evitare di partorire una sceneggiatura zeppa di aforismi, riflessioni e “ultime parole famose” dall'inizio alla fine.
La storia è fatta di idee impossibili che, una volta realizzate, perdono ogni spinta rivoluzionaria. Eisenstein, che nacque a Riga e morì a Mosca sotto Stalin, avrebbe qualcosa da dire anche su questo.
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