I rimbrotti schifiltosi degli esponenti del governo nei confronti delle nostre oziose inclinazioni, delle nostre debosciate attitudini non sono soltanto un dileggio della tragedia sociale che si consuma nel mondo. Non rappresentano soltanto l’aberrante ostinazione a confondere lo status privilegiato delle loro famiglie con quello dei cittadini minacciato e insidiato dalla crisi. Non denunciano soltanto che la loro lettura della realtà è alterata dal filtro ottuso della manualistica economica e ragionieristica imparata a pappagallo nelle aule universitarie. Dichiarano l’incapacità di interpretare i modi originali e devastanti che mette in atto il capitale oggi. In una fosca coazione a ripetere i governi europei con tenace determinazione e insana testardaggine si fanno guidare, remissivi e disciplinati, dal potere del mercato e dall’egemonia del profitto, che si sono sostituiti alla sovranità degli stati e dei popoli, sono orientati a curare la malattia con i virus che l’hanno prodotta, riaffermando la sopraffazione degli strumenti della finanza immateriale sulla moneta, sono orientati a fronteggiare la disoccupazione con la causa che continua a determinarla, quella precarietà che chiamano flessibilità.
Qualcuno ha definito questa sindrome occidentale con le parole di Einstein, riferite a un’altra follia ripetutasi nella storia: “insanity”: fare la stessa cosa e continuamente ripeterla e aspettarsi risultati diversi. Così dopo più di un ventennio di guasti conclamati della flessibilità, che ha prodotto instabilità, incrementato la disoccupazione, impoverito il welfare, pare che la ricetta molto simbolica e poco realistica sia lo sgretolamento violento del monumento dell’articolo 18. Che basterebbe a uscire dalla stagnazione e rimetterebbe in moto l’economia. Il ‘900, breve ma crudele e iniquo, che si era concluso con 35 milioni di disoccupati nei paesi OCSE (8% delle forze di lavoro, 11% nell’Unione Europea), aveva già dimostrato che quel dinamismo ostentato come un successo, altro non era che un formicolare di vermi sul corpo ormai morto del lavoro, una crescita attribuibile a una aberrazione occupazionale: la frammentazione del lavoro e quella precarietà indegna e incivile al servizio della domanda intermittente e arbitraria delle imprese e delle produzioni sempre più ridotte e impoverite.
Io non so come questo governo pensi di rimettere in moto la grande macchina della crescita, fronteggiare la rapida obsolescenza delle innovazioni di prodotto, sostituire il business dell’auto sulla cui senescenza attribuibile non solo all’inettitudine, la Fiat ha molto da insegnare.
E come se non bastasse come incoraggiare imprenditori accidiosi e codardi e più in generale il mercato a abbandonare le lucrose e indolenti attività meramente finanziarie per riconvertirsi all’ impegno gravoso della produzione, quando primi tra tutti i governi hanno dato le dimissioni da ogni impegno imprenditoriale pubblico, disimpegnandosi dal welfare, dismettendo il ruolo statale e pubblico nei servizi che è stato ed è ancora fonte di posti di lavoro. Il ministro Passera deve essersi perso qualche utile lezione all’università, se attribuisce come ha fatto ad Internet la potenza di attivare economie, paragonabile all’industria automobilistica del dopoguerra, dimenticando che la cifra formidabile dell’informatica sta proprio nel sostituire il lavoro con processi automatizzati.
Il continuo rinvio di misure per la crescita, il rifiuto di un regime incoraggiante di ammortizzatori sociali e di un reddito di cittadinanza, come fosse un’utopia ottocentesca, la strategia degli annunci continuamente smentiti: è di oggi la cancellazione del fondo per la riduzione delle tasse con i proventi della lotta all’evasione previsto in uno degli articoli della bozza del decreto legge sulle semplificazioni fiscali, scelte che non scalfiscono le tendenze di fondo di un mercato che produce ricchezza finanziaria con sempre meno lavoro, tolgono ogni credibilità alle promesse di una austerità a termine.
Ogni qual volta qualche osservatore, libero dall’occupazione militare del dogmatismo neo liberista, muove obiezioni all’azione del governo si scontra con il pensiero unico della necessità, con il ricatto dell’inevitabilità, con il tallone di ferro dell’ineluttabilità.
Come se non fossimo più abilitati a pensare a qualcosa di diverso dalla dannata china neo liberista, che reca ormai pregiudizio allo stesso capitale e alla sua sopravvivenza, ora che la crisi che ha travolto il sistema finanziario dei paesi capitalistici sfociando in una rovinosa recessione. Come se “sostituire” politicamente e idealmente il capitalismo fosse solo l’utopistica e celibe esercitazione di anime belle.
E’ vero società politica si è sfarinata, rigettando le vecchie forme politiche di potere senza introdurne di nuove, col risultato di aprire ampi spazi all’individualismo e al mercatismo; la sinistra ha dimenticato stelle polari e battaglie per le quali combattere; la democrazia soffre del disincanto amaro e rinunciatario dei cittadini. E come se non bastasse il capitalismo finanziario aereo e vaporoso ma inesorabile ha fatto quello che la proletariato non è riuscito, si è mondializzato.
Eppure bisogna uscire dall’acquiescenza, sostituire le idee al cinico pragmatismo, già sarebbe bastato che l’Europa finanziasse un piano per la crescita grazie all’emissione degli Eurobonds e il varo della tassa sulle transazioni finanziarie che permettano di pagare la spesa per interessi sulle obbligazioni europee. Basterebbe davvero qui da noi alimentare la circolazione della moneta e riattivare il credito bancario alle famiglie e alle imprese. Sarebbe sufficiente rovesciare le convinzioni dominanti che considerano i redditi da lavoro come gravami da minimizzare piuttosto che fattori di benessere da promuovere: come vincoli e non come obiettivi. E puntare su di un’economia della sostituzione e dell’efficienza, su uno sviluppo di qualità anziché sull’alimentarsi dissoluto di una espansione illimitata, con una più equa distribuzione del reddito e una produzione ecologicamente più equilibrata. Basterebbe promuovere con iniziative sociali la diffusione di imprese del terzo sistema delle relazioni gratuite; promuovere la costituzione della scuola permanente a tutti i livelli di età, insomma fare degli stati sovrani gli imprenditori dello sviluppo dell’essere al posto alla crescita dell’avere. Basterebbe e si può.