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Ora mi si chiede di fare un concorso senza che mi si possa prospettare una situazione lavorativa chiara o anche solo credibile davanti. L'insegnamento sarà pure illuminato da un entusiastico spirito missionario, ma è chiaro a tutti, ministri e giovani professori innamorati del proprio ruolo, che si tratta di una professione? E che, in quanto professione (pagata malissimo e peggio ancora considerata), la si esercita con determinate aspettative personali di ogni tipo? Chi è insegnante della scuola statale - io no - ha negli scatti di anzianità automatici l'unica speranza di carriera, gli altri neanche questo. Diventare dirigente scolastico, ovvero preside, richiede altre procedure e ben altro tipo di preparazione, fermo restando che a me, per esempio, quella è una carriera che non interessa affatto. Come non mi interessa quella accademica, come ben sanno le persone con cui ne ho parlato.
Allora faccio anche lo schizzinoso, non voglio lavorare? Io in questo momento sarei prontissimo a cambiare percorso, proprio perché appunto ho voglia di lavorare. Ma la dobbiamo smettere di chiedere tutto ai futuribili professori per far pagare loro carissima la scelta lavorativa (e perché, poi?). Quella dell'insegnante è una professione e, sia pure stipendiati, gli insegnanti sono dei professionisti. Alcuni, senza nessun eufemismo, non sono degni di esercitarla. Attualmente, tra quelli in cattedra e tra gli altri. Ma i test preselettivi, buoni per includere serial killer e calcolatrici dotatissime e per escludere persone che riflettono un po' più di un minuto a domanda e imbecilli, non servono. Gli imbecilli, gli psicopatici e gli incapaci rimangono e chi nel frattempo ha fatto esperienza sul campo, valutando da sé se può fare o meno questo lavoro; chi ha acquisito mezzi e strumenti operativi reali, nella speranza che un giorno o l'altro una graduatoria lentissima e bislacca, ma quanto meno trasparente, lo premiasse; chi contava ieri e oggi sul fatto che avrebbe dovuto essere migliore per insegnare oggi deve rimettere ancora una volta tutto in discussione.
Tentare un nuovo concorso giocando ogni volta il tutto per tutto, perdendo tempo che potrebbe essere dedicato alla sua professione reale, in un'attività di caccia al topo, di inseguimento della domanda fortunata a cui si sa rispondere con quelle modalità disumane di domande uguali per tutte da Trieste a Trapani, da Aosta a Cosenza, nella scuola dell'autonomia e della personalizzazione, nella scuola che dovrebbe educare a pensare. E quello che è peggio è l'entusiasmo ottimista di coloro che, professionisti di altri rami, non si rendono conto dei numeri reali che fanno sì che questo concorso non sia un'opportunità, ma una iattura. Una specie di condanna per chi lo deve fare per non farsi superare da altri in un'altra graduatoria la cui stessa esistenza è dominata dall'arbitraria e oltraggiosa, avvilente, mancanza di idee e di chiarezza.
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