
A Cannes di premi già ne hanno vinti parecchi, facendo un clamoroso e unico en plein (premio alla regia e Palma d’Oro) con BartonFink e due premi alla regia per Fargo e L’uomo che non c’era. Con la loro ultima fatica, Joel e Ethan Coen tornano prepotentemente in lizza per rientrare nella lista dei vincitori del Festival francese con Inside Llewyn Davis, sicuramente non uno dei lavori migliori, ma comunque un’opera convincente che ripropone tutti gli elementi tipici del cinema del cinema dei fratelli del Minnesota.
Ispirandosi alla vita del cantante folk Dave van Ronk, Inside Llewyn Davis si inserisce sulla scia di film come A serious man, Il grande Lebowski e L’uomo che non c’era, mettendo al centro del racconto un antieroe perdente che non riesce a trovare la strada giusta per la sua esistenza. Una ricerca che lo vede vagare senza sosta, da una città all’altra, tra incontri casuali e occasioni mancate, per poi non trovare mai il successo tanto sperato. Il film non presenta una vera e propria trama, ma viene scandito narrativamente dalle diverse tappe del movimento costante di Llewyn Davis, dalle persone in cui si imbatte, dalle sue emozionanti perfomance canore. Ci si trova così di fronte a situazioni paradossali animate dai tipici personaggi “cretini” e assurdi dell’universo coeniano. Situazioni divertenti, senza dubbio, ma anche funzionali a un discorso sull’arte e sulla ricerca di se stessi che pervade l’intero film e che propone qua e là, sotto le righe, diversi motivi autobiografici.
Illuminato dalla splendida fotografia chiaroscurale di Bruno Delbonnel, Inside Llewyn Davis non è solo un simpatico quadro autocitazionista che ruota su stesso senza trovare una sua dimensione narrativa, come all’apparenza può sembrare, ma rappresenta l’ultima tappa della poetica cinematografica dei due fratelli del Minnesota. Una poetica che indaga il cinema stesso, l’ispirazione artistica, la solitudine, le contraddizioni delle relazioni affettive, l’insoddisfazione, la bellezza dei sogni. E a dare al film ancora più spessore ci pensano gli ipnotizzanti brani musicali interpretati dagli stessi attori – brani tra l’altro ripresi nella loro interezza – e gli attori stessi, come sempre scelti e diretti alla perfezione dai Coen. Se Justin Timberlake e Carey Mulligan si dimostrano abilissimi a trovare le tonalità giuste per il film, e F. Murray Abraham e John Goodman sono mattatori nei loro cammei, è Oscar Isaac la vera sorpresa: il suo talento ci era già noto, ma qui regge la pellicola quasi interamente da solo, su quella sua espressione del viso volutamente tendente al monotono ma in realtà rivelatrice di mille diverse emozioni.
di Antonio Valerio Spera
