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Insulti, dietro a cosa si perde la Giustizia

Creato il 02 agosto 2012 da Oblioilblog @oblioilblog

Insulti, dietro a cosa si perde la Giustizia

Ogni persona con un minimo di tatto, pur arrivata al punto di esplodere, sa che ci sono insulti più o meno pesanti e più o meno adatti alla situazione o all’interlocutore. Basterebbe un minimo di buon senso e la storia si concluderebbe lì.

Invece spesso il tutto finisce in tribunale perché senza sentenze non ci si mette d’accordo. Si intasano le Corti con processi inutili e anche i gradi più elevati sono chiamati a pronunciarsi su contenziosi bizzarri. Nasce così una giurisprudenza degli insulti.

Dire a qualcuno che “non ha le palle” è reato: è “un’ingiuria lesiva del virtù del genere maschile”. Così come non si può apostrofare una donna come “puttana” anche se è una professionista. Urlare “criminale assassino” al marito violento è invece lecito, anche in assenza di omicidio. 

Tra consiglieri comunali non ci si può dare del “cretino” perché sottende “una concezione degradante del potere pubblico”, così come è reato anche chiamare il sindaco “azzeccagarbugli”.

Si può definire un militante di Forza Nuova “razzista” senza subire condanna perché il “razzismo è connaturato all’ideologia di estrema destra”. È permesso a un professore dare del “ladro e imbroglione” al preside “se detto nell’esercizio delle funzioni sindacali”.

“Frocio” è reato per la Cassazione (non per il Tar) perché comunica “derisione e scherno”. Tutti però concordano che rivelare l’omosessualità altrui, quando questi non l’ha ancora fatto, è condannabile. Sempre nel campo della discriminazione, “sporco negro” è reato, così come affermare che “sarebbe preferibile una gestione maschile”.

Sarebbe scontento il Marchese del Grillo: dire “lei non sa chi sono io” è reato perché “intimidisce e limita la libertà psichica”. Stessa sorte per il “ti boccio” del professore allo studente perché “ingenera forte timore che lede la libertà morale”.

Si può chiamare il proprio superiore “pazzo” poiché è considerata una “critica costruttiva”, concesso anche il semplice “vaffanculo” che “non compromette il rapporto fiduciario con l’azienda”. Il capo invece non può dare al dipendente del “rompiscatole”, “stronzo” o dirgli “non capisci un cazzo” in virtù della “contenenza espressiva” a cui sono tenute le alte gerarchie.

 

Fonte: Il Giornale


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