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Intermezzo speciale a cura di gaetano barbella

Da Teoderica
INTERMEZZO SPECIALE A CURA DI GAETANO BARBELLA2011. Catene di un Dna che si spezza e si duplica. Un vitale "manierismo" in atto.
Mi viene da perfezionare un celato risvolto su "catene" che si spezzano a causa di "forza maggiore" - mettiamo in modo traslato ad una certa occulta "radioattività" cui ho fatto cenno nel commento al post del 19 dicembre 2010. Buona, fra virgolette, però.
Verso la fine del Medio Evo si estese dalla società all'arte il Manierismo, un termine affascinante che orienta il significato di artificiosità di volta in volta con un'accezione positiva o negativa, similmente alla "catena" in questione.
Dal linguaggio cortese in lingua d'oil arriva in Italia il termine manière col significato di disinvoltura, eleganza, raffinatezza, grazia cortese. Quel significato resta lo stesso fino al Cinquecento quando Vasari, nella terza parte delle Vite, dice che con Leonardo, Raffaello e Michelangelo comincia la «maniera moderna» o «grande maniera» la quale supera e vince non solo gli antichi ma la natura stessa.
Il campo semantico della parola si sposta quindi dall'ambito della corte a quello dell'arte. Ma c'è di più: l'arte non è più l'imitazione delle opere della natura (come era stato a partire dagli antichi i quali per dimostrare la bravura del pittore Zeusi raccontavano come un uccello si fosse ingannato beccando un grappolo d'uva dipinta), bensì l'imitazione delle opere dei grandi maestri che hanno saputo correggere l'imperfezione della natura.
Fa quindi la sua apparizione, non nominato, l'artificio (il «fatto ad arte»).
Secondo l'«Idea del Tempio della Pittura» pubblicato dal Lomazzo nel 1590, per dipingere il quadro ideale di Adamo ed Eva, si dovrebbe affidare il disegno di Adamo a Michelangelo, il colore a Tiziano, le proporzioni di Eva a Raffaello e il suo colorito a Correggio. Nasce quello stile che, a posteriori, nel 1789, verrà chiamato Manierismo dall'abate Luigi Lanzi per stigmatizzare quegli artisti seguaci dei maestri del Rinascimento contro i quali si era già espresso nel Seicento il Bellori accusandoli di aver abbandonato lo studio della natura.
Viene sancito così lo slittamento verso il significato negativo della parola: la maniera è lo stile del nascondere e la pittura, alla fine del Cinquecento, diventa infatti talmente ermetica ed elitaria che spesso nemmeno gli eruditi che stilavano i trattati di iconologia riescono a interpretare i lavori dei colleghi.
L'enigma, il rebus, il piacere dell'arcano conosciuto solo da una stretta cerchia di eletti, le allegorie e gli emblemi caricano la decorazione di un'arte che ama il mistero e il meraviglioso.
Allo stesso modo, nell'ambito della letteratura e della società il termine maniera continuava a designare un contegno elegante e ricercato ma, rispetto al Medio Evo, ora si aggiungeva il concetto di «sprezzatura», come indicato dal Baldassar Castiglione nel Libro del Cortegiano.
La corte, così come l'arte, sono una maschera peregrina e preziosa ma portata con grazia, senza mostrare alcuno sforzo apparente. Un significato che sopravvive ancora nel Settecento francese dove maniériste designa l'artista per il quale la facilità di esecuzione viene prima di ogni altra cosa. Inizialmente stile di corte, dunque, la maniera si ripropone come artificiosità intellettuale in seguito all'incrinatura della serenità rinascimentale dovuta a due grandi choc: lo scisma di Lutero e il sacco di Roma del 1527 ad opera dei barbari protestanti.
Il linguaggio classico viene allora riformulato secondo uno spirito inquieto e pieno di contraddizioni. La contaminazione con l'arte dei paesi germanici (portata in Italia dall'invenzione della stampa) introduce effetti irrazionali e capricciosi.
Una società diventata di nuovo «liquida», diremmo oggi con il termine di Zygmunt Bauman, dopo la caduta dei punti fissi umanistici e rinascimentali, prende in arte la strada dell'involuzione su se stessa. Non va in cerca di nuove invenzioni ma preferisce forzare il linguaggio classico con un accento anticlassico; al posto della simmetria introduce la visione laterale; alla linea dritta preferisce quella spiraliforme; alla correttezza delle proporzioni, le figure allungate, al discorso diretto quello criptato.
Ma se fino all'inizio del secolo scorso il concetto di Manierismo designa la decadenza e la corruzione rispetto alle conquiste del Rinascimento, a partire dagli anni Dieci, grazie all'opera critica di Max Dvoràk, viene rivalutato come capacità di esprimere l'aspetto irrazionale e inquieto di una crisi, un momento di contraddittoria ricchezza. Manierismo diviene allora sinonimo di inquietudine e personalità bizzarre come Pontormo ed El Greco attraggono l'interesse degli artisti espressionisti. La rilettura in chiave positiva del Manierismo coinvolse quindi anche l'ultimo Raffaello (già nella Stanza cosiddetta dell'Incendio di Borgo dipinta in Vaticano) e l'ultimo Michelangelo: oggi si sostiene che furono proprio i padri della «grande maniera» a seminare i virus anticlassici. E lo si dice con ammirazione per quell'ombra di malinconia che seppero far calare sulle serene certezze del Rinascimento.(1)
Non a caso (una mia presunzione? vanagloria?) sul finire del 2010 ho rilasciato un saggio proprio sul dipinto di Raffaello, l'Incendio di Borgo. Qui una nuova stella è posta in mostra dal maestro di Urbino ma nessuno vi ha dato mai importanza notandola. È un rosone a 22 raggi di cattedrale insolito ma singolare. Si può affermare che è «grande maniera» lì in mostra, come un replicarsi in atto di una catena di concezioni che vi si sprigionano ed io ne mostro le possibili peculiarità.
Oggi mi sto occupando di uno straordinario manierista che raccoglie in sé i grandi dell'«Idea del Tempio della Pittura» pubblicato dal Lomazzo nel 1590, sopra menzionato. È Benvenuto Tisi detto il Garofalo col dipinto Sacrificio pagano. In questo quadro, come ha fatto Tintoretto mostrandosi assai critico (alla S. Tommaso) al centro del suo dipinto Nozze di Cana, (una sua peculiare "maniere" assai evidente ma sfuggita a tutti: perché?). Garofalo pone la questione del capro espiatorio posto sull'ara sacrificale e lo mostra al centro attraverso il suo occhio spento. Una centrale verticalità regale (strutturata al suo "interno" dalla "divina Proporzione), la giusta mentre altre, quelle delle case in lontananza e dell'ara stessa non lo sono. Ecco come si spezzano catene di cose in perdizione ma chi le nota? Anche Giorgione fa la stessa cosa con La Tempesta e solo una "cicogna su un tetto" si erge in una ideale verticale a sfidare la tempesta in procinto di devastare.
Oggi c'è Magritte con "Il falso specchio", l'opera che condanna la verità dell'immagine. Le nuvole dell'illusione, così un grande occhio mette in crisi il mondo. "Il falso specchio" è un enorme occhio che ci guarda, ma dentro il quale non vediamo riflessi noi stessi, bensì un cielo attraversato da nubi. L'immagine più semplice del mondo, eppure quanto mai ambigua, a partire dalla pupilla che, al centro di quel cielo azzurro, appare come un inspiegabile sole nero. Ma non solo: che cosa è quel cielo? Quello reale riprodotto dalla superficie specchiante della pupilla, oppure un «falso specchio » che non rappresenta ciò che l'occhio vede, bensì ciò che ci illudiamo di vedere? È una finestra sul mondo o il nostro mondo interiore che diventa una finestra?(2)
Gaetano
(1) http://archiviostorico.corriere.it/2010/settembre/23/Manierismo_fuga_nell_irrazionale_che_co_9_100923069.shtml
(2) http://duemilaragioni.myblog.it/archive/2008/11/27/francesca-bonazzoli-magritte-il-falso-specchio.htm

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