Mostra FREQUENZE 140621/0712 Spazio Natta, Como, 12 luglio 2014
Nell’ambito della mostra di Doriam Battaglia BATT realizzata con il patrocinio del Comune di Como, Assessorato alla Cultura è stato organizzato un incontro-conversazione sul tema “Spazio, Tempo e Musica” che si è svolto sabato 12 luglio (giorno di chiusura della mostra) alle ore 18,30 presso lo Spazio Natta.
I relatori sono stati l’Arch. Angelo Monti ed il Prof. Paolo Ferrario (docente presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca) che dialogheranno con me e con l’artista Benny Posca che ha realizzato una installazione nel giardino antistante lo spazio della mostra
Parto dal testo di BATT che introduce le opere esposte:
“alcune considerazioni sulle opere recenti: sguardo verso l’infinito e l’eterno; pittura “preformale” (vibrazioni, frequenze, particelle, atomi); l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande; regola dei frattali; l’opera come memoria nello spazio; il pensiero che genera la materia; l’attimo fugace (pag. 9-11)
la sua idea di invitarmi parte da questa canzone di Nina Simone: “He was too good to me” (1961) dove l’emozione dell’ascolto dipende dalle pause di silenzio che lei sa introdurre nel suo canto. Di lei diceva Charles Aznavour: “Nina Simone canta le parole delle canzoni”
Da qui una prima suggestione sul rapporto fra spazio (di una tela, di un pannello, di un quadro) e musica: spesso mi capita di rappresentarmi dentro la mia percezione uditiva la musica come delle pennellate gialle, rosse, blu.
E infatti il blu, nella musica jazz (basta ricordarsi di Duke Ellington) è molto ricorrente. E ora lo vediamo nel video in quella tela di Batt.
A me sembra che i fondamenti del nostro percorso di attraversamento della vita siano:
il Tempo
lo Spazio
l’Eros
la Polis
il Destino
Sul Tempo possiamo fare riferimento ad una splendida lezione del fisico Carlo Rovelli al TedXlakeComo del 2002 nella quale “mostrava ” questi concetti:- il tempo non esiste. E’ una concezione utile ma la scienza dimostra, con le argomentazioni degli orologi, che il tempo non esiste perchè è influenzato dalla gravità. Non esiste un unico orologio, ma tanti orologi diversi, tanti tempi diversi
- come pure la nozione di alto e basso: che non c’è nell’universo
- l’universo è sterminato e noi vi occupiamo un angolo piccolissimo, dove percepiamo alcune cose e che interpretiamo con i nostri necessari criteri appresi nella cultura. Il mondo è molto più ricco di come lo percepiamo
- sull’estremamente piccolo e sull’estremamente grande abbiamo meno nozioni
Ecco: a mio avviso l’arte, la pittura, la musica riescono a rappresentare, tramite l’uso di spazio, colori, note soggettivamente rielaborate, questa complessità che ci appartiene
Qui il video di Carlo Rovelli:
Il Tempo nella musica è ben raccontato dal violoncellista Mario Brunello nel libro Il silenzio, Il Mulino, 2014. Vediamo alcuni passaggi del suo dire:
- il silenzio è parte dell’ascolto
- la musica ha bisogno di tempo per essere “sentita”. Occorrerebbe dedicare tempo all’ascolto
- il silenzio valorizza i suoni
- il silenzio consente al suono di essere valorizzato
Leggiamo:
“ogni forma d’arte ha il suo spazio per il silenzio: la pittura, sorda a ogni commento, vive nel silenzio, ma arriva a descriverlo. La scultura, muta, silenziosa suo malgrado, custodisce gelosamente un insieme di suoni, parole o rumori. La poesia scritta o detta vive nel silenzio, rotto dalle parole, vive nel silenzio degli spazi bianchi non misurabili perchè possono durare all’infinito. La musica addirittura del silenzio ne fa materia prima. Il silenzio che precede la prima nota eil silenzio dopo l’ultima sono indispensabili affinchè la musica si riveli ed esista.” (pag14)
Qui una lezione di Mario Brunello nella quale farà “vedere” come John Cage è il cantore del silenzio, quando rovescia i rapporti fra suono e silenzio. Il silenzio diventa accettazione dei “suoni altri esistenti ” all’interno dello spazio concesso all’autore:
Ma è lo Spazio ad avvicinare molto la musica alla pittura.
Qui l’associazione mentale ed emotiva che faccio è al concetto di Cerchio dell’apparire, insegnato dal filosofo Emanuele Severino. Un quadro e una musica fanno apparire qualcosa. Lo fissano nel tempo.
Leggiamo le sue parole:
“La parola “apparire” non indica la parvenza, l’apparenza illusoria. Anche le parvenze e le apparenze appaiono – e appare il loro rapporto con la “realtà” di cui sono parvenze. L’apparire non è l’apparenza che altera e nasconde l’essere, ma è la manifestazione dell’essere, il suo illuminarsi, il suo mostrarsi. … Appaiono anche i sogni e i silenzi; anche i pensieri e gli affetti – tutte cose che, insieme a tante altre, non sono illuminate dalla luce del sole … e la stessa parola “apparire” proviene dal latino apparere, che è riconducibile a pario, che significa “partorisco” e a paro, “preparo, allestisco”. (in La filosofia futura, Rizzoli, 1989, p. 195-196)
e ancora:
“L’uomo e le altre cose vanno lungo una strada, così come gli astri eterni percorrono la volta del cielo. Il loro sorgere non è il loro nascere, il loro tramontare non è il loro morire, essi brillano eterni anche prima di sorgere e dopo essere tramontati. Tutte eterne, le cose, dalle più umili alle più grandi, tutte ingenerabili e incorruttibili, esse vanno lungo una strada, nel senso che vanno via via mostrandosi, vanno entrando e uscendo dalla volta dell’apparire del mondo. (in La strada, Rizzoli, 1983, p. 134)
Ecco, a me la figura del cerchio dell’apparire -guardo voi nella sala con i quadri di Batt ed effettivamente apparite come dentro a un cerchio- sembra perfetta per vedere le vicinanze percettive ed esistenziali fra una musica e un quadro. L’arte produce questo effetto: renderci consapevoli della eternità di ogni attimo.
C’è un’altra immagine molto adatta a far riflettere su questo tema. Le immagini di una pellicola fotografica sono una sequenza di fotogrammi. Noi percepiamo quell’attimo, che poi scompare, e nella sequenza della comparsa e scomparsa ottemiamo l’effetto della visione e dell’ascolto. Dunque i fotogrammi scorrono lungo la linea del tempo, compaiono nello spazio e scompaiono: Ma la struttura della pellicola rimane. Dunque quelle singole immagini non finiscono nel nulla, ma sono eterne.
Spiega meglio questo passaggio il filosofo Aldo Natoli, in una intervista alla vicina Radio Svizzera:
A me sembra che quando Doriam Battaglia dice “ciò che provo a rappresentare sono le vibrazioni, le frequenze dello spettro visibile, le particelle, gli atomi e le molecole che vengono a costruire la materia di cui siamo fatti e di cui è fatto l’universo” ci avvicini, con il linguaggio dell’arte, a fare esperienza diretta della struttura sottostante ad ogni evento che compaia nel cerchio dell’apparire
Cosa resta della scomparsa o affievolimento, nella pittura dell’ultimo secolo, dei volti, dei paesaggi? Resta la struttura delle cose. Le cose non sono solo “cose”, ma energia. La natura del mondo è un fluire di energia. La materia è un “campo” in cui le diverse espressioni dell’energia si muovono incessantemente. Il mondo fisico non è una serie di oggetti, ma una rete di interazioni in costante flusso.
I frattali, presenti nella espressione pittorica di BATT, ne sono una delle manifestazioni. Il frattale è una figura geometrica, sostenuta dalle regola matematiche, in cui un motivo identico si ripete su scala continuamente ridotta. le zone del dettaglio fanno vedere la struttura ricorsiva che si ripete, ma è l’effetto visivo quello che ci emoziona. Apputo: struttura sottostante e risultato complessivo. C’è una struttura che sostiene ciò che entrerà nel nostro campo della visione
Un’altra associazione mi è indotta dai pannelli di Batt, soprattutto di quello “bianco” che si vede anche nel video: il rapporto fra mente e cervello.
Qui mi sostiene il libro di Daniel J. Levitin, Fatti di musica, Codice edizioni, 2006. L’autore è un neuroscienziato che ci propone una visione cognitiva dell’ascolto estetico della musica. La mente è la parte di noi che incarna pensieri, speranze, desideri, ricordi, convinzioni, esperienze. Il cervello è un organo fisico (materia) fatto di cellule, acqua, sostanze chimiche. E’ costituito da 100 miliardi di neuroni ed è capace di una quantità enorme di connessioni. Dunque: strutture e connessioni sono alla base della nostra presenza ed identità. Una struttura di base è capace di produrre esiti infiniti. E l’opera d’arte ci offre, per via emozionale, questa vertiginosa e profonda esperienza.
La musica è una combinazione organizzata di suoni nel tempo e nello spazio. E un”arte che sa esprimere i sentimenti per mezzo di un linguaggio delle note che il cervello sa elaborare, sia per la sua struttura biologica, sia per la sua capacità di “fare memoria” e di rielaborala.
Concludo con la musica che accompagna il lavoro produttivo delle opere pittoriche di Batt. Questa mostra è stata costantemente accompagnata dalla musica di Roberto Cacciapaglia.In riferimento al suo disco “Canone degli spazi” Cacciapaglia dice: “Per comporre i miei brani io uso le triadi, che sono elementi elementari alla base dell’armonia. Usufruisco dei cicli, in cui lo strumento solista rimane sempre al centro, mentre l’orchestra ruota intorno ad esso, facendo delle fasce che vanno dal pianissimo al fortissimo, dando vita a delle orbite, come quelle dello spazio. L’orchestra diviene così come una sorta di costellazione che gira intorno, come fossero onde planetarie. Lavoro sulla presenza del suono, cercando di creare una alchimia fra gesto, suoni e intenzioni per cercare di toccare le emozioni di chi ascolta. Ad ogni modo per me è importantissimo comporre immerso nel silenzio“.
Di Nina Simone e della sua straordinaria capacità di usare il silenzio per agire con il canto e il suo pianoforte nel creare il momento “unico” dell’ascolto interiore ho già detto all’inizio.
Ma ci sono tre musicisti australiani che suonano da una trentina d’anni ad offrire, a mio avviso, una eccezionale base musicale al modo di fare pittura di Batt. Si tratta dei The Necks (Chris Abrahams, tastiere, Tony Buck batteria, Lloyd Swanton, basso).
In Italia sono praticamente sconosciuti. Io li ho inseguiti dove ho potuto, una volta a Forlì e un’altra a Berna
Ascoltiamo questo due framment musicale:
E’ difficile per i Necks proporre dei frammenti perchè la loro specificità consiste nel creare, nel qui ed ora di una serata, un unico pezzo musicale di circa un’ora. Per ascoltarli (e nel tempo di internet oggi questo sembra impossibile) occorre darsi un’ora di tempo
Vi invito a sentire i due pezzi di Aquatic e se volete a inseguire le mie successive note di ascolto.
Qui c’è un estratto di Aquatic:
I The Necks creano e suonano assieme dal 1989, fanno un jazz nuovissimo, esplorano nuove frontiere come hanno fatto i loro predecessori, che cercavano
“la nota impossibile, quella che non esiste, che non c’è sulla terra” (Steve Lacy su Thelonius Monk).
Il loro ascolto lascia sempre il segno. Eppure non hanno attraversato quella invisibile linea che passa fra il notturno trascinare gli strumenti per il piccolo pubblico e la notorietà. Ripeto: almeno in Italia.
Dipenderà anche dal fatto che abitano in una terra straordinaria, ancestrale e moderna nello stesso tempo: l’Australia. Là devono essere molto famosi, visto che continuano il loro progetto musicale difficile e inusuale: in quasi vent’anni hanno realizzato solo 34 pezzi per un totale di 20 ore. Effettivamente la loro musica assomiglia molto a quel paesaggio: sanno creare uno spazio psichico e visivo che è bello e coinvolgente attraversare con la loro guida. Sì, sanno costruire un percorso ipnotico. Come nel film Picnic ad Hanging Rock ha fatto Peter Weir (1975).
C’è una zona d’ombra su di loro e allora vorrei colmare la lacuna e illuminare qua e là.
In “Aquatic” (1999) Chris Abrahams è al Piano e all’organo Hammond, Lloyd Swanton al Contrabbasso acustico ed elettrico, Tony Buck alla batteria e alle percussioni. Questa volta c’è anche Stevie Wishart all’”Hurdy-Gurdy” (una specie di violino elettrico che ha un suono simile alla cornamusa).
I pezzi sono due: uno di 27 minuti, e l’altro di 25. Una eccezione rispetto al loro standard, che quello di un’unica scultura musicale di circa un’ora.
L’ascolto lascia vigilmente intontiti per la bellezza del ritmo (Tony Buck è un batterista eccezionale), per le armonie degli accordi pianistici, per la ripetizione ipnotica, per tutte le cose che accadono in quella che non è solo un’iterazione minimalista.
Già il primo movimento è di grande soddisfazione per la mente musicale. Suoni raffinati che alimentano l’immaginazione, rintocchi pianistici di forte energia, un drumming-beat davvero unico, rumori ambientali appena accennati e stimolatori di benessere psichico. Come a dire: “sei in un altro spazio, ma qui si può stare bene. E’ solo diverso”.
Ma il secondo movimento è incredibilmente bello (cercherò di scegliere un assaggio che lo rappresenti). Uno “Swing” che è indubbiamente jazzistico, ma che si avventura in un’Ambient Music di gran cultura. Inizia subito a grande velocità, con il contrabbasso violineggiante di Swanton, incalzato dal terribile Tony Buck, un vero monello della batteria. Poi il piano diAbrahams comincia a spingere avanti. Sempre di più: trilli, battiti, con il basso a contenere. Ecco di nuovo gli archi. Sempre più veloce, impercettibilmente veloce. Viene voglia di chiudere gli occhi. Ecco: nel nero si vede lo spazio che è attraversato dalle note del piano sorrette da quel tappeto volante che è la batteria, baroccheggiata dal contrabbasso. Ora il ritmo si fa un po’ meno frenetico. E comincia il gioco fra di loro. Sì: l’interplay jazzistico inventato dal trio di Bill Evans risorge, si riattualizza in un’altra dimensione ! I tre improvvisano dentro un sonno spaziale reso possibile dalla (leggera) elaborazione elettronica dei suoni. La conclusione è di grande pace.
Sì è bello stare qui. E dove siamo ?
Ma guarda un po’: ancora in Drive By.
La loro è un’architettura musicale: siamo sempre a casa ! O meglio: si ritorna sempre a casa. Come insegna la cadenza d’inganno, qui raccontata da Alessandro Baricco:
Infine una esperienza musicale irripetibile è quella di Prism , suonato dal trio Keith Jarrett, Gary Peacock, Jack Dejhonette.
Irripetibile perchè questo pezzo è stato suonato così solo quella sera del 1985 a Tokyo e poi mai più:
Guardate Keith Jarret che vola sul pianoforte inseguendo quel frammento di mondo che ha trovato in quell’istante
Guardate Gary Peacock che ride con il batterista come per dire: “hai visto … è partito …“
E non dimentichiamoci di Dejohnette che umilmente si mette al servizio di questa esperienza unica di spazio, tempo e suoni.
Infine: grazie Doriam Battaglia Batt che ha reso possibile questo inimmaginabile incontro nell’imbrunire sul centro storico di Como, nella giornata di sabato 12 luglio 2014.
Paolo Ferrario