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Intervista a Cosimo Argentina

Creato il 13 aprile 2012 da Temperamente

Intervista a Cosimo Argentinadi Angela Liuzzi

Quest’oggi ospite del salotto letterario virtuale di temperamente.it è lo scrittore Cosimo Argentina, classe 1963. Nato a Taranto, si laurea in giurisprudenza a Bari e si trasferisce poi in Brianza, dove vive da ventidue anni e insegna Diritto; esordisce nel 1999 con Il cadetto (Marsilio).

Cosa significa scrivere per Cosimo Argentina?

Potrei riscrivere qui una pagina di Viaggiatori a sangue caldo – la 109 – ché sintetizza quello che penso, ma al di là di questa ipotesi di autocitazione mi viene da rispondere: tutto. A ventidue anni ho cominciato a scrivere per affascinare una ragazza e da allora non ho mai smesso perché io temo di non esistere senza la mia scrittura. Voglio dire che la mia penna dà senso a tutto il resto. Sono un uomo banale, regolare, a volte patetico altre volte moderatamente  gradevole. Argentina è uno nella media, coi suoi difetti e i suoi pregi, nulla di che, nulla da segnalare… studi regolari, lavoro precario nella pubblica amministrazione, due figli… un maschio e una femmina,  casa con mutuo trentennale, auto di proprietà, vacanze dalla madre, a Taranto. MA. Ma il Cosimo Argentina  che scrive è tutta un’altra storia. Esce qualcosa di potente e onnipotente… qualcosa di travolgente che spiazza me per primo. Quando scrivo divento una sorta di re, un sovrano, un tiranno in grado di sottomettere gli dei…  una sensazione impressionante, molto vicina al piacere assoluto. Inoltre scrivere è vivere molte vite; diventare un animale da palcoscenico con le luci sempre accese anche se nessuno se ne accorge. Tutto questo è dentro di me e all’esterno non filtra nulla. Dentro… dentro è una festa mobile – come direbbe Hemingway – dentro è la consapevolezza di essere l’unico essere umano vivo – per dirla alla Philip Dick – e non capisco come fanno gli altri a non scrivere ed arrivare comunque al termine della giornata. Un mistero, per me, la sopravvivenza degli altri.

I tuoi romanzi hanno un minimo comune multiplo: la città di Taranto. Folklorica e “giovane” in Cuore di cuoio (Sironi); terribilmente cupa in quello che definirei il “romanzo della follia”, Maschio adulto solitario (Manni); piegata dal dolore in Vicolo dell’acciaio (Fandango). Ci vuoi raccontare qual è il tuo rapporto con la tua città natale, specie ora che vivi in Brianza, e come questo rapporto influisce sulla tua scrittura?

Credo che uno sia per tutta la vita quello che è diventato nei primi quindici anni di esistenza. Io i primi quindici anni li ho passati a Taranto, nel quartiere Italia Montegranaro e poi, dai diciannove in poi, ho vagato per molte città tra cui Modena, Roma, Novi Ligure, Bari, Milano, Monza, l’Hinterland nord milanese, la Brianza estrema e via dicendo. Ed ogni volta che qualcuno mi chiede di definirmi mi viene da dire che sono uno di Taranto anche se mia madre è bolognese e mio padre brindisino. Noi siamo quello che abbiamo vissuto negli anni formativi della nostra anima, del nostro cranio e del nostro modo di essere.  Oggi che vivo a mille chilometri da Taranto il rapporto si è paradossalmente fortificato. Prima, vivendo tra i vicoli della città ero proiettato verso mondi lontani tanto è vero che i primi tentativi narrativi sviluppavano storie ambientate in Scozia, in Irlanda, a Capo Nord, Marocco… ora invece ho due scenari: Taranto e il milanese. Quando torno a Taranto riconosco la tribù, i tarantini, e invece stento a riconoscere la città che si è ovviamente omologata agli standard nazionali e internazionali. Il tarantino invece non cambia mai.

Un altro elemento che accomuna i tuoi lavori è la lingua, un misto di dialetto e italiano di grande efficacia, io credo, ma che, allo stesso tempo, rischia di rendere di difficile lettura i tuoi romanzi a potenziali lettori estranei all’area tarantina. È un “rischio” che non ti preoccupa?

Se faccio una panoramica mentale dei miei libri ti posso dire che rispondono alla regola dialettale Cuore di cuoio, in parte Maschio adulto solitario e Vicolo dell’acciaio mentre sono scritti in italiano o in un gergale dal basso ma non dialettale Il cadetto, Bar Blu Seves, Viaggiatori a sangue caldo, Brianza vigila, Bolivia spera, Nud’e cruda, Beata ignoranza, Messi a novanta. Quando ho scritto Cuore di cuoio molti mi hanno detto bel libro, ma se lo trasformi in italiano spacchi, altrimenti resterà di nicchia. Ma, vedi, era nato così. Il libro era nato per i miei amici e mentre lo scrivevo pensavo a loro e a come avrebbero riso a certe battute. Alla fine il dialetto del libro non è tarantino puro – e gli esteti me lo hanno contestato – e non è italiano, ma va bene così. Per gli altri libri, ti dirò… ogni storia nasce con un suo linguaggio e il narratore deve capire quale è l’ideale per la storia che ha in mente. Certo il rischio è alto perché perdo una fetta di gente che non ha voglia di sbattersi a comprendere quello che cerco di scrivere, ma, ripeto, va bene così. E poi succedono cose curiose come ad esempio nei rendiconti di Sironi, ai tempi della prima uscita di Cuore di cuoio; in pratica era successo che le vendite maggiori erano state registrate a Padova, poi Taranto e poi le altre piazze molto staccate. Padova? Ancora mi chiedo perché.

A proposito di Cuore di cuoio, direi che il titolo sintetizzi perfettamente la trama del romanzo. L’adolescenza di Krol e dei compari è la stessa vissuta da Cosimo Argentina? Com’era allora Taranto?

È un romanzo che avevo dentro da anni perché era la storia del mio quartiere, dei miei amici, della mia vita al tempo dell’adolescenza. Sì, li ho vissuti così i miei quindici anni quando andava tutto bene a patto che ci fossero gli amici e un pallone anche di plastica da calciare al volo sotto l’incrocio di  immaginari pali. Quanto a Taranto allora era spazi immensi e quartieri che si andavano formando. Dalle mie parti le auto passavano di tanto in tanto e noi potevamo giocare tra le erbacce, nei cimiteri delle auto, nei palazzi in costruzione o nelle vie chilometriche e deserte. Ricordo che una volta in una partita quindici contro quindici utilizzammo tutta via Alto Adige come campo. Chi aveva polmoni sufficienti per fare una discesa sulla fascia, palla al piede, poi salutava e se ne andava a casa spompato più che mai. Spazi, dunque… e semplicità. Anche nella difficoltà tutto era semplice e non c’era mai l’assillo di dover fare qualcosa o non avere i soldi per poter fare qualcosa. Semplicemente ci si accontentava di stare insieme.

Con Maschio adulto solitario, uscito quattro anni dopo Cuore di cuoio, ti dedichi a una storia “nera” che racconta la perdizione di Dànilo, troppe volte deluso dalla vita e, per questo, capace di reagire ad essa solo con violenza e autodistruzione. Come sei arrivato a una storia tanto cupa – e, però, così tremendamente “sincera”?

MAS rappresenta quello che ho dentro ma che per fortuna non viene mai fuori. Una rabbia feroce e castrante per quello che qualche dio dell’ira, laggiù, disperso nello spazio, m’ha fatto e non è chiaro nemmeno cosa mi abbia fatto. MAS è stato il mio romanzo più rifiutato in assoluto e alla fine solo il coraggio di Manni ha permesso che uscisse. Nel frattempo io riscrivevo la storia e la alleggerivo sicché voi avete letto la versione soft del fatt’apposta. Mi chiedi come ci sono arrivato, a una storia del genere? Avevo solo degli spunti reali come una videocassetta smarrita che accennava a Kuma, un maschio adulto solitario, un cane da slitta; avevo una tigre in un cortile; avevo un cieco barese a cui avevamo fatto uno scherzo; e forse avevo un presagio circa una ragazza, un angelo troppo angelo per vivere su questa sporca terra. Il resto è stato solo mettere i pezzi insieme. So solo che ci restavo secco quando mostravo il romanzo a direttori editoriali e loro mi rispondevano lei, Argentina, spreca il suo talento, potrebbe scrivere cose deliziose e invece si va a infilare in gineprai narrativi oscuri e senza senso. Non riuscivo a far capire loro che per me un senso ce l’aveva… era un urlo di dolore che doveva uscir fuori altrimenti erano guai, per me.

Dànilo Colombia è un “maschio adulto solitario”: cammina in mezzo alla gente, eppure ne è estraneo. Mi viene in mente un personaggio a tratti simile, quel Raskolnikov che compie il Delitto e poi subisce il Castigo. C’è qualche modello (letterario e non) che ha ispirato la storia?

Molti e nessuno, come spesso accade. Dentro oggi ci vedo Raskolnikov, ma anche il Kurtz di Conrad; Bardamu di Céline; alcuni eroi fottuti di Edgar Allan Poe; il Fritz Brown di Prega detective di James Ellroy; il Rick Deckard di Philip Dick; alcuni eroi pazzi di Bill Burroughs; il Mohamed nel Pane nudo di Mohamed Choukri e poi una certa filmografia come ad esempio il De Niro di Taxi driver e la geniale interpretazione di McMurphy di Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo… e mi fermo qui anche se potrei andare avanti per un bel po’.

Vicolo dell’acciaio è un titolo che inevitabilmente richiama Acciaio della Avallone e Ternitti del martinese Desiati. Il tuo romanzo si inserisce in questo filone dei libri-denuncia oppure ritieni che si sottragga a questa classificazione?

No, niente comunelle letterarie. Vicolo non è un libro di denuncia, è solo il libro sulla mia via, sui padri dei miei amici e su come ho vissuto l’epoca dei tumori e delle morti bianche. Solo questo. In fondo è sempre la stessa storia, iniziata con Il cadetto che ha fatto da sinossi, poi è arrivato Cuore di cuoio, MAS e tra MAS e Cuore di cuoio va collocato Vicolo, mi manca un prima e un dopo e ho concluso. Inoltre sono contrario ai filoni letterari, alle scuole di pensiero, alle adunanze narrative, ai siti dove venti scrittori si interrogano su un libro o su un’idea. Vedo quest’arte come qualcosa di solitario, isolato, da frontiera. Secondo me gli scrittori non dovrebbero nemmeno conoscersi tra loro. Ognuno nel suo cantuccio a scrivere, senza confrontarsi, condizionarsi, esaltarsi vicendevolmente. La scrittura collettiva o condivisa è una contraddizione in termini perché se decidi di scrivere una storia ti ritrovi davanti a una montagna che devi scalare da solo. Nessuno può aiutarti.  E sempre a proposito della tua domanda aggiungo che per Acciaio della Avallone il legame è sul titolo e in parte per lo scenario industriale, ma per il resto credo apparteniamo a due parrocchie diverse – per sua fortuna visto che lei ha venduto 100 volte quello che ho venduto io – .

Intervista a Cosimo Argentina
Sembra che la tua scrittura tenda a dar voce agli sconfitti, o, per meglio dire, ai “vinti” di stampo verghiano. E tu ricordi proprio Verga, che si allontana dalla sua Catania per andare a vivere a Milano, ma poi si rende conto di essere indissolubilmente legato alla sua terra, che rientra a tutta forza nella sua produzione narrativa, descritta con lucidità e intento critico. È così?

Premetto che Verga è una vittima scolastica. Il fatto di averlo affrontato a scuola me lo ha fatto scivolare nelle letture pallose e non l’ho più ripreso, nella mia vita mentre invece ho ripreso Leopardi e Dante con ottimi risultati – per Manzoni ne riparliamo – . Però c’è un filo conduttore tra abbandono e riconquista di uno scenario. L’amore esplode quando non hai più qualcuno o qualcosa… è lì che ti accorgi di cosa significava per te anche se quando era lì, a portata di labbra e occhi non te ne accorgevi nemmeno. Come per le persone, anche per i luoghi la messa a fuoco è spesso proporzionale alla distanza che metti  tra te e il bersaglio. Amo Taranto, il suo mare e i suoi monumenti molto più adesso a mille chilometri che ventidue anni fa quando ci vivevo. Ora quando entro in città dal ponte girevole sono estasiato, allora mi incazzavo solamente a causa del traffico. Uguale per le persone. Quando non le hai più con te ti esplode una nostalgia invalicabile che ti fa mordere le labbra per aver sprecato istanti preziosi quando eravate insieme. La narrativa si nutre di distanze, forse. Si è pronti per scrivere una storia quando questa si allontana da te. E a proposito dei vinti, sì, posso dirti che mi trovo a mio agio con gli insicuri, i fottuti, i messi male in arnese e invece divento bastardo con quelli che dalla vita hanno avuto il meglio. Le ferite per me sono fascino puro. Una ragazza che ha sofferto per me è mille volte più bella e affascinante di una con tutti gli attributi al posto giusto. Non c’è storia!

Nella recensione di Vicolo dell’acciaio ho definito la tua scrittura “onesta”, slegata, cioè, da logiche editoriali e, pertanto, capace di esprimersi senza censure. Che rapporto hai col mondo dell’editoria?

Non voglio appuntarmi sul petto la coccarda della purezza perché non è il caso, anche perché se un uomo decide di pubblicare le sue cose vuol dire che dentro c’è ambizione e desiderio di comunicare agli altri quello che crea. Ma quello che tu affermi mi trova d’accordo come principio generale. Se uno, nello scrivere, riesce a essere onesto, sincero e a mettersi in gioco osando sempre di più, tentando di superarsi… bè, allora potrà scrivere romanzi belli o brutti, riusciti o venuti male, ma la sua arte andrà nella direzione giusta e, se c’è talento, qualcosa ne dovrà pur venir fuori. Quanto al mondo dell’editoria io sono un caso un po’ a sé. Dieci libri con una mezza dozzina di case editrici e adesso il nuovo con l’ennesima, ma questo non per scelta quanto per le circostanze. Il mio sogno è sempre stato quello di accasarmi presso un editore e cercare di sviluppare un rapporto che potesse rendere un servizio alle storie che scrivo, ma per un motivo o per l’altro non è mai successo. Perciò potrei dire che il mio rapporto con il mondo dell’editoria è mordi – e – fuggi, anche se spero di cuore di assestarmi una volta per tutte.

C’è un nuovo romanzo in cantiere? Ci anticiperesti qualcosa?

Ci sarebbe un casino di roba in uscita o in pentola, ma vediamo un po’ cosa dicono i signori dell’editoria. Allora: entro l’estate dovrebbe uscire nuovamente a distanza di tredici anni Il cadetto,  per Fandango. Poi c’è il nuovo romanzo, Per sempre carnivori, che dovrebbe uscire per Minimum Fax alla fine del 2012 o giù di lì. È la storia di tre insegnanti pazzi che si vanno a inguaiare con le donne sbagliate. Per sbagliate intendo alunne minorenni, donne di piccoli boss di provincia e colleghe blindate. È ambientato nella Murgia, Ginosa e dintorni, per capirci. Questo per quanto riguarda le uscite presunte;  poi io continuo a lavorare a un romanzo mooolto voluminoso – sullo stile – e ci sarebbe anche  un romanzo storico rifiutato da molti che caracolla da una casa editrice all’altra in cerca di fortuna, ma, a sentir loro, è troppo violento per il mercato attuale. E intanto che gira – da due anni – ho dovuto cambiare già una volta il titolo perché quello precedente – Come in terra – nel frattempo è stato utilizzato da un altro. Rischi del mestiere.

Ringraziamo Cosimo Argentina per la disponibilità, facendogli un grosso in bocca al lupo per i progetti futuri!


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