(da qui)
- E il riferimento a Sotto il vulcano di Lowry, al quale accenna Gianfranco Palmery nella testimonianza che accompagna la riedizione de L’osservatorio?
Ah, sì… c’è anche quello, il riferimento ai dodici capitoli di Sotto il vulcano, uno dei libri che più amo, insieme a Lord Jim di Conrad.
- Dicci qualcosa di più sulla terza parte di Lezioni di respiro, quella sull’infanzia. Perché quel titolo, La sirena-infanzia, per esempio?
L’infanzia è naturalmente poetica, mitica, perché leggendaria, cioè il più delle volte immaginata; ovvero trasfigurata da una memoria imperfetta perciò fantastica. Nel titolo, l’uso del kenning (che è un procedimento sintattico-retorico tipico dell’antica poesia anglosassone) vuole accentuarne il carattere mitico attraverso il legame con un termine, “sirena” (l’infanzia “sirena del tempo”, secondo Rebora), che nel nostro immaginario rappresenta il fascino dell’inganno o del pericolo e della possibile perdita di sé: tornare all’infanzia non significa regredire fino alle radici della persona? Magari per comprenderne le conseguenze future, le sue prospettive…
- Qui, e in genere nei tuoi ultimi libri, c’è un ritorno alla versificazione tradizionale, in particolare all’endecasillabo. È così? E perché?
Molti anni fa, l’amico poeta spagnolo Eloy Sanchez Rosillo, che aveva appena letto la prima parte de L’osservatorio, mi chiese perché rinnegassi così palesemente l’endecasillabo, quando si sentiva benissimo che era la misura segreta dei miei versi. Gli risposi domandando a mia volta se non sentisse l’esigenza di cambiare e smetterla per un po’ con quel metro. No, rispose. Perché cambiare, se funziona? Io l’avevo fatto perché m’ero sentito schiavo della sua naturalezza, che rischiava di diventare facilità. Ma dopotutto aveva ragione lui, perché, anche ne L’osservatorio e nelle prime due parti di Lezioni di respiro, il verso s’apre a un respiro, appunto, che tende all’endecasillabo. Perciò, tornare ad usarlo è venuto del tutto naturalmente, senza che ciò rappresenti un intimo discordo; forse solo una riconquistata consapevolezza.
- Ho visto che questo vale anche per Gli anni di cenere, il quaderno che hai appena pubblicato con “La luna”. Ma non per Aprile degli anni.
Sì, è vero. Ma Aprile degli anni è un libro scritto molti anni fa, quando ancora stavo lavorando a L’osservatorio. E poi è un libro tutto particolare.
- Particolare come? Perché non ce ne parli?
Devo ripetere quel che ho scritto nella notizia che lo accompagna. Lavoravo alla rifinitura de L’osservatorio e, per rilassarmi dalla tensione di quel lavoro, leggevo le poesie di E. E. Cummings (spezzare la tensione con qualcosa di assolutamente diverso mi pare che aiuti). Senza neanche rendermene conto, mentre leggevo mi appuntavo varianti della traduzione e via via apportavo varianti anche al senso delle poesie, trascrivendole in una forma più tradizionale. Più andavo avanti nella lettura e più quegl’interventi diventavano seri e modificavano i testi stessi di Cummings. Insomma, alla fine cominciai a scriverne di miei, ma imitando quello stile fatto di incisi, di esclamazioni ecc., finché non si accumularono un bel numero di testi assolutamente autonomi. Col tempo, poi, altri se ne aggiunsero, il gioco si fece più serio di quel che credessi e alla fine Aprile degli anni arrivò a duplicare esattamente la struttura originaria de L’osservatorio (là poi modificata prima della pubblicazione): rovesciandone metro, sintassi e visione, ne diventò il contraltare lirico, le “commozioni familiari e semplici”. Le sue poesie, di solito brevi, furono anche una reazione alle lunghe sequenze de L’osservatorio.
- Finora, ogni tuo libro è stato diverso dal precedente, almeno formalmente. Il tuo prossimo come sarà?
Il prossimo, che forse si intitolerà Dopo Aprile (ammesso che qualcuno voglia pubblicarlo), avrà una struttura diversa. Sarà costituito da quattro poemetti, strutturati come un macrosonetto caudato, con un prologo che si lega a Lezioni di respiro e un epilogo che rimanda a L’osservatorio.
- Sarà un cerchio che si chiude. Ma in che senso parli di macrosonetto?
Perché i primi due poemetti sono divisi in quattro parti, e costituiscono un po’ le quartine di un sonetto; i secondi due sono divisi in tre parti: le due terzine di quell’ipotetico sonetto; in più, l’ultimo ha una coda.
- E puoi dirne qualcosa?
Poco. Parla di alcuni momenti significativi della mia vita. Come dicevo, io parto sempre dalla mia esperienza. E qui, da un aforisma di Nietzsche che dice: “Troviamo parole solo per ciò che è già morto nei nostri cuori; c’è sempre una sorta di disprezzo nell’atto di parola”. A volte è vero, a volte no. Il passato si può rivivere nella memoria, con la saggezza, o almeno l’esperienza, dell’età; nella poesia, con la trepidazione e l’imprevisto del momento presente. Qui sono entrambi messi in atto.
- Per finire, m’incuriosisce la tua teoria dell’orfanezza. Puoi spiegarla?
Io penso che i poeti nascono orfani (ma guai a dispiacersene o a piangerne oltre l’infanzia – poetica, s’intende). Per molto tempo cercheranno il padre, ma potranno solo eleggersene uno adottivo. Qualche volta si uniscono in un gruppo, condividendo esperienze e scelte; orfani che per un po’ di tempo trovano rifugio in qualche luminoso orfanotrofio, ovvero una rivista di tendenza (ora sono in auge i blog) o un manifesto poetico. Ciò li fa sentire fraterni e solidali, ma dura poco. Di solito sono quelli più dotati che fuggono per primi; qualcuno anche tragicamente, lasciando in coloro che restano un vuoto fatto di nostalgia e di benevola invidia, ma anche di incomprensione dei motivi dell’abbandono, che ai rimasti somiglia a un tradimento. Qualcuno di essi si accosta appena alla porta dello strano orfanotrofio, attratto dalla luce che brilla all’interno; o, meno per scelta che per caso, condivide con gli ospiti di esso un breve soggiorno. Qualcun altro ne ignora perfino l’esistenza.
- Perché si legge sempre meno poesia?
Perché il lettore ha fretta ed è sempre meno disposto a spendere del tempo in una lettura lunga e impegnativa (se si tratta di poesia, perché poi è tutto contento di tuffarsi in qualche ‛riposante’ best-seller di tre-quattrocento pagine). Ma non sono certo che oggi se ne legga meno di un tempo. Diciamo che se ne è letta sempre poca. La poesia è sempre stata per sua natura un’attività un po’ clandestina, perciò anche i suoi lettori sono dei clandestini. Il che non vuol dire che non ce ne siano, ma solo che non si rivelano tanto facilmente. Semmai, verrebbe da chiedersi perché se ne scrive ancora, sebbene riesca a malapena a competere con l’immediatezza di un bel quadro o di un film; o, in altro senso, con la sedimentazione sinuosa e lacustre di un romanzo.
- Perché se ne scrive ancora?
Il catalano Pere Gimferrer, rispondendo a una domanda simile, dice che “tutta l’arte, in definitiva, non è che un punto di vista da cui guardare il mondo – per un solo istante –; non come idea vissuta giorno dopo giorno, ma come presenza che all’improvviso esplode davanti ai nostri occhi”. La poesia è esattamente quell’istante di nitida visione. Per questo se ne scrive e per questo se ne legge ancora.
- E ha un compito?
Non ha una funzione salvifica, ma spesso aiuta il lettore, il possibile interlocutore, a capire i propri sentimenti. La stessa cosa raramente vale per il poeta, il quale, quando una poesia è conclusa, rischia di restarne prigioniero.
- E il poeta?
Ti rispondo con le parole di Conrad: “L’instancabile, onesta attenzione a ogni momento della vita, l’attenzione nel verificare come essa si riflette nella nostra coscienza, è probabilmente il dovere che ci è stato assegnato. Un compito in cui forse il destino ha impegnato la nostra coscienza, conferendole anche voce per testimoniare la sofferenza e la serenità”.
- Dunque, sembri ottimista sul futuro. Eppure, in un testo di Lezioni di respiro intitolato appunto Il futuro della poesia dici che “domani è come un morto / giudizio”.
La tua citazione non è precisa. Il verso, in realtà, dice: “… e domani e domani è come un morto / giudizio…” (dove quel domani e domani viene dal Macbeth, frutto di quella che io chiamo “la memoria involontaria”: solo quando me ne resi conto lo misi in corsivo). Perciò non è il domani ad essere come un giudizio morto, ma l’aspettare il domani e qualcosa da esso, cioè dal futuro. Quanto al futuro della poesia… Una volta scrissi – e lo penso ancora – che la vera poesia è cosa strana e rara, fatta di mestiere ma anche di miracolo. Apparentemente accerchiata dalla realtà, vessata dalle tirannie delle urgenze quotidiane, ha in se stessa le capacità per rompere l’accerchiamento, per tirarsene fuori. Venere nacque dalla spuma del mare. Evento improbabile oggi…
- Improbabile, ma sempre possibile.
Penso alla fuga di Beppe Salvia lungo i viali di Villa Borghese, disgustato dell’immagine che i poeti davano di se stessi durante un “Festival internazionale dei poeti” a piazza di Siena – era l’83 o l’84 –, proprio mentre lo chiamavano per leggere. Scappava dalla mondanità dei poeti, non certo dalla Poesia. Ma oggi? Oggi che alla Poesia, come a tutte le cose a rischio di estinzione, è necessario dedicare una giornata di salvaguardia?
- E il tuo futuro? All’inizio accennavi al possibile inaridirsi della tua vena poetica…
È un po’ che ho perso la fede nella necessità dei versi (sono tre anni che non ne scrivo più). O forse ho perso la pazienza necessaria a quell’opera di lima e di pulizia che da sempre accompagna la mia scrittura. Sempre, dopo ogni poesia mi sono sentito vuoto e ho temuto ch’essa potesse essere l’ultima. Già in passato, il miracolo dell’assoluta solitudine, della completa disponibilità a ricevere questa sorta d’illuminazione necessaria alla scrittura, era sempre meno frequente e io ero preso dalla paura ch’esso non si ripetesse più; allora cresceva l’ansia e, con l’ansia, la smania. Ma una smania impotente, un desiderio acuito dalla privazione, senza possibilità di compimento, come quando desideri una donna che non ti vuole. “È come smettere di fumare”, mi dicevo allora. Fortunatamente, l’avanzare dell’età permette un’attenuazione del desiderio. E dell’ansia. Adesso che sono sedici anni che non fumo più, è tutto più sopportabile.