FRANCESCA DIANO INTERVISTA GITA ARAVAMUDAN
D In India sei una giornalista e scrittrice notissima, soprattutto per quanto riguarda questioni di genere. E a Bangalore sei stata una delle prime donne giornaliste. Come hai iniziato? Quando e perché (se mai esiste un perché) hai cominciato a scrivere?
R Scrivere mi è sempre piaciuto, fin da bambina. Presi la decisione di diventare giornalista quando ero all’università, al Mount Carmel College a Bangalore, e mi stavo laureando in Scienze Politiche e Letteratura Inglese. Ma non era una cosa facile, perché, alla fine degli anni ’60 i giornali non assumevano le donne. Dopo la laurea, quando iniziai a bussare alla porta di vari quotidiani chiedendo un lavoro, tutti mi rifiutarono per il solo motivo che ero una donna, anzi, una ragazza. Alla fine fui assunta come apprendista presso un importante quotidiano di Delhi, l’Hindustan Times. Per un po’ di tempo lavorai come redattrice interna e poi seguii un po’ la Cronaca. Però, una volta che il mio periodo di apprendistato si concluse, dovetti andarmene. Tornai a insegnare nella mia vecchia scuola, la St Joseph’s Convent a Kolar Gold Fields, dove vivevano ancora i miei genitori. E poi, dopo dell’altra grande fatica, fui assunta come cronista in un altro importante quotidiano, The Indian Express di Bangalore, che era la grande città più vicina. Avevo ventun anni ed ero la prima giornalista donna della città.
Ho iniziato come giornalista generica e coprivo qualunque argomento, dalle sfilate di moda alla nera, dai comizi elettorali al cinema. Dopo aver lavorato in questo campo per oltre dieci anni, lentamente cominciai a focalizzare la mia attenzione sulle questioni di genere. Dopo un po’ di tempo cominciai a tenere delle rubriche in cui me ne occupavo e mi specializzai in questo campo.
D Molti dei tuoi libri-inchiesta trattano argomenti molto drammatici, come l’infanticidio femminile o la maternità surrogata. Argomenti che rivelano la difficile situazione delle donne indiane, che non sono ancora in grado di liberarsi dalle catene e, allo stesso tempo, si trovano proiettate a gran velocità verso il futuro. Perché credi che sia così difficile per le donne – e non solo in India – farsi valere? Sembra che debbano tollerare una terribile pressione sociale perché ciò non avvenga.
R Ho scritto tre saggi e due romanzi. Essendo una giornalista, mi capita di imbattermi, nella vita reale, in storie veramente drammatiche e le ho riportate nei miei tre libri-inchiesta. Ma, così come in Disappearing Daughters ho scritto dell’aborto selettivo e delle morti a causa della dote, in Unbound: Indianwomen@work ho anche raccontato le storie, meno drammatiche ma più incoraggianti, di donne indiane che lavorano e di come si stiano svincolando dai ruoli tradizionali. Nel mio ultimo libro sulla maternità surrogata, Baby Makers, mi sono occupata dello sfruttamento delle donne che affittano il loro utero, ma ho anche voluto far notare le scelte indipendenti che compiono e i benefici che ne traggono. Sì, è difficile per le donne di tutto il mondo resistere alla pressione sociale che su di loro esercita una società patriarcale tradizionale. Però ho la sensazione che ci sia una sorta di rinascita. Sempre più donne ricevono un’istruzione e diventano indipendenti e stanno imparando a tracciarsi una propria strada. Ho definito questo fenomeno il modello femminile del successo. Non usano la violenza, ma stanno compiendo una rivoluzione silenziosa secondo le loro modalità.
D Nel tuo ultimo libro, Baby Makers. The story of Indian Surrogacy, tocchi un punto molto dolente, poiché pare che l’Occidente seguiti a sfruttare la povertà delle donne orientali, approfittando in questo modo di due fragilità: quella di essere povera e quella di essere donna. Vuoi parlare di questo libro?
R In realtà Baby Makers non riguarda lo sfruttamento delle donne indiane povere. Dal momento che sono essenzialmente una giornalista, mi sono interessata di tutta l’industria che ruota attorno alla maternità surrogata e alla fertilità e al modo in cui, in breve tempo, questa si sia trasformata in una miniera d’oro. Ho considerato la questione da ogni angolatura: quella dei genitori che vogliono avere dei bambini, quella dei medici, quella delle donatrici di ovuli, quella delle agenzie che procurano le madri surrogate e quella delle donne che affittano l’utero. Anche se il libro si basa su una ricerca meticolosa, ho usato uno stile di tipo narrativo, che i miei lettori hanno sempre molto apprezzato.
Ma, la cosa più importante, è che in Baby Makers non si esprimono giudizi moralisti. Non mi schiero da nessuna delle parti di coloro che fanno parte di questo business. Mi limito ad esporre i fatti così come sono. Sì, è vero, c’è una forma di sfruttamento, ma in India non sono solo famiglie occidentali che affittano uteri. Lo fanno anche delle famiglie indiane. Ed è un dato di fatto, una realtà della vita che, in ogni transazione commerciale, sono i ricchi a pagare i poveri per i servizi resi. In questo caso, affittano delle donne perché partoriscano i loro figli. In sé questo non è sfruttamento, dal momento che le donne lo fanno volontariamente, perché il denaro che guadagnano è loro utile. Lo sfruttamento avviene spesso da parte delle agenzie e degli intermediari e perfino da parte di alcuni medici ciarlatani che ingannano queste donne, oppure fanno delle cose che possono mettere in pericolo la loro salute o la loro stessa vita. Questi sfruttano tanto la loro ignoranza che la loro povertà.
D Nel tuo secondo romanzo, Colour of Gold, descrivi un luogo, la città di Kolar, considerata un tempo uno dei siti minerari per l’estrazione dell’oro più ricchi del mondo. Così come, in passato, era un paradiso dorato per i funzionari inglesi e anglo inglesi. La storia si svolge nell’arco di un secolo. Ma anche nel tuo primo romanzo l’azione si snoda attraverso molte generazioni. Qual è il tuo rapporto col passato e con il tempo in generale?
R Forse anche questo deriva dalla mia esperienza come giornalista. Quando ho scritto Colour of Gold avevo un’enorme quantità di informazioni su Kolar Gold Fields.[1] È in questa piccola città mineraria che sono cresciuta e mi sono sposata. Ma il fatto molto importante è che negli anni avevo scritto molti articoli su di essa. Per questo motivo avevo intervistato molte persone, visitato gli archivi governativi e raccolto materiale. Dunque, quando ho iniziato a scrivere questo libro, il materiale in mio possesso era così tanto che, per farcelo stare tutto, mi serviva una storia che si svolgesse nell’arco di molte generazioni! Così, anche se Colour of Gold narra la storia di KGF, non è un noioso documentario, ma un thriller avvolto nel mistero e dall’azione veloce, che pare abbia colpito l’immaginario dei miei lettori, dal momento che tutti loro me lo stanno confermando e sta avendo un grande successo!
Il mio primo romanzo è stato The Healing. Ho scelto un’ambientazione che mi è piuttosto familiare: una famiglia tamil brahmana estesa[2] che vive a Chennai, una città dell’India del Sud. I personaggi sono immaginari, così come gli avvenimenti. Ho cercato di mettere in luce il modo in cui, in una realtà così tradizionale, l’atteggiamento nei confronti delle donne è cambiato nel corso di trent’anni. Dunque, per la narrazione, mi serviva un arco di tempo maggiore.
Sono ormai quarant’anni che faccio la giornalista e quindi ho una ricca riserva di materiale a cui attingere. E penso anche che condensare il tempo dia una sorta di effetto tridimensionale alla storia.
D Che ostacoli hai trovato nel diventare una giornalista e una scrittrice femminista? E pensi che la tua posizione sia facile o no nell’India di oggi?
R Come ho già detto, scegliere la via del giornalismo alla fine degli anni ’60 era una cosa molto difficile per una ragazza. Dopo aver lavorato alcuni anni nella redazione di un quotidiano, ho sposato uno scienziato aerospaziale e agli inizi degli anni ’70 mi sono trasferita a Trivandrum, la città più meridionale dell’India. Anche quella era una società molto tradizionale e non esistevano donne giornaliste. Ho dovuto ripartire da zero. Questa volta non potevo nemmeno ottenere un lavoro, così ho cominciato a fare la freelance. Mi ci vollero due anni per crearmi una reputazione come scrittrice ma, quando questo accadde, cominciai a ricevere ottimi incarichi dalle migliori testate del paese. Scrivevo articoli su qualunque soggetto mi capitasse e penso che questo sia stato un grande vantaggio. Curavo delle rubriche di argomento sociale, intervistavo esponenti politici, scrivevo articoli di nera, recensioni di film… tutto.
Sono sempre stata una femminista e la mia carriera giornalistica mi ha dato l’opportunità di consolidare le mie idee. Avevo la possibilità di inserire in ogni articolo da me scritto il punto di vista femminile. Cosa molto rara a quei tempi, dato che il giornalismo era un campo dominato dai maschi. Ben presto cominciai a tenere delle rubriche su argomenti di genere sui principali quotidiani e scrivevo anche per riviste femminili che pubblicavano articoli sull’autoaffermazione delle donne. Inoltre ho seguito importanti casi investigativi su crimini contro le donne.
Penso che oggi, per una donna, sia assai più facile accedere alla carriera giornalistica. E in effetti credo che più del 50% dei giornalisti (soprattutto agli inizi della carriera) siano donne. In un certo modo però è anche più difficile, perché la concorrenza è maggiore. C’è stata un’esplosione dei media ed è diventato molto difficile far sentire la propria voce. La paga è migliore e la pressione maggiore.
Per quanto mi riguarda, non sono più attiva come giornalista. Scrivo solo articoli su commissione e mi concentro sui miei libri. Dunque mi godo la vita e la scrittura!
[1] Kolar Gold Fields (K.G.F.) è il nome della città mineraria nel distretto di Kolar, nello stato del Karnataka, a circa 30 km da Kolar e circa 100 km da Bangalore. La miniera è stata chiusa nel 2001 perché la quantità del metallo estratto andava ormai esaurendosi. (N.d.T.)
[2] Qui si intende una tipologia familiare in cui convivono sotto lo stesso tetto diversi nuclei familiari tutti facenti capo a un patriarca (padre con i figli maschi e le loro famiglie). (N.d.T.)
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Gita Aravamudan (Bangalore, 1947), è una delle più note giornaliste indipendenti indiane, una delle prime donne a scrivere sui più importanti quotidiani nazionali come l’Hindustan Times, l’Indian Express o The Hindu, India Today e molti altri, ma anche autrice di successo di narrativa e sconvolgenti libri-inchiesta per Harper Collins.
Giornalista da oltre 35 anni, è sposata con un ingegnere aerospaziale, vive a Bangalore, scrive in inglese e ha collaborato e ancora collabora con articoli di politica, critica letteraria, cinematografica e di temi sociali con i maggiori quotidiani nazionali in lingua inglese. Da oltre 20 anni è parte attiva del movimento femminista indiano e negli ultimi anni la sua attenzione si è concentrata in modo particolare sulla condizione femminile in India e sulle sue contraddizioni. I suoi libri-inchiesta sull’argomento hanno fatto scuola.
Nel 2007 ha pubblicato il libro-inchiesta Disappearing Daughters, the tragedy of female foeticide, immediatamente diventato un best seller, sconvolgente documento sul feticidio femminile, che reca la preziosa prefazione del Presidente della Repubblica indiana Abdul Kalam. Un libro che ha scoperchiato il vaso di Pandora e ha innescato una forte presa di coscienza, sia politica che sociale e dibattiti parlamentari su una piaga che sta sconvolgendo l’equilibro demografico indiano, aprendo scenari apocalittici per il futuro.
Nel 2010 ha pubblicato Unbound: indian women@work, il suo secondo libro-inchiesta sul rapporto che la nuova donna indiana ha con il lavoro e la società. E nel 2014 Baby Makers, the Story of Indian Surrogacy, un’accurata indagine con taglio narrativo sul fenomeno dilagante della maternità surrogata, il cosiddetto “utero in affitto”, per cui molte coppie di occidentali, sia etero che omosessuali vanno in India a cercare donne in stato di bisogno che partoriscano i loro figli per pochi soldi, con la complicità di agenzie, di medici e istituzioni locali corrotte. Le storie narrate sono a volte agghiaccianti.
L’India è un paese la cui economia è in costante crescita e l’evoluzione sociale ed economica velocissima. Proprio per questo, una delle categorie più deboli, la donna, si trova a vivere in un vortice spesso poco gestibile di contraddizioni e di confusione sui ruoli, nonostante in India vi siano donne di grande potere, sia in politica che nel mondo imprenditoriale che in quello della cultura. La donna indiana non vuole più essere moglie o figlia sottomessa, ma non sa ancora come conciliare la tradizione (moltissimi matrimoni sono ancora combinati, perfino nelle fasce sociali più istruite e abbienti) con le nuove esigenze della modernità.
In fondo l’India dei villaggi e quella delle megalopoli supertecnologizzate coesistono in un equilibrio instabile, ma non indolore. È questo il motivo per cui Aravamudan ha deciso di usare la propria grande esperienza, la professionalità giornalistica e la sua voce ormai molto autorevole in favore delle donne indiane e del difficilissimo passaggio socioeconomico che stanno attraversando.
Gita Aravamudan è però anche autrice di splendida narrativa. Con Harper Collins ha infatti pubblicato I due romanzi The Healing e Colour of Gold .
The Healing (2008) è la saga di una famiglia di Chennai (Madras) attraverso le generazioni, nel corso di settant’anni fino ad oggi, narrata in prima persona da Bharati, la figlia minore del patriarca Ramanujam che, proprio nel giorno del terribile disastro della caduta della moschea Babri Masjid ad Ayodhya, a causa di disordini fra hindu e musulmani, che portarono alla morte di duemila persone, è colpito da un infarto e viene ricoverato in ospedale. Ma la famiglia deve affrontare un altro tracollo, quello della trasformazione dell’antica residenza familiare in appartamenti individuali. Una prospettiva che sovvertirà le loro vite. Ma la sofferenza che il cambiamento richiede può essere trasformata, non permettendo al passato di distruggere il presente e il futuro. Attraverso appunto una guarigione profonda delle ferite. Lo healing del titolo.
In Colour of Gold (2013) la vicenda, che si trasforma poi in un vero e proprio giallo, si svolge nella città mineraria di Kolar Gold Fields, KGF, nel Karnataka, sede delle miniere d’oro considerate un tempo fra le più ricche del mondo.
E questo è anche il primo libro mai ambientato in una miniera d’oro in India. Nel romanzo, la ricerca di un uomo per le proprie radici fa emergere una serie di complesse relazioni. Una lettera misteriosa inviata da un centenario inglese. Un cadavere ritrovato lungo la ferrovia. Una città in cui si trovano delle miniere d’oro. La spedizione di un giornalista australiano alle miniere abbandonate di Kolar. Cosa unisce questi eventi? La ricerca della verità su quella morte misteriosa porta alla luce molti segreti. Ma è anche la storia di una città, fra il 1903 e il 2003, un tempo un paradiso e ora un fantasma del proprio passato. Kolar infatti era stata negli anni ’50 un luogo idilliaco, con villette circondate dal verde, parchi e giardini, in cui abitava un’agiata comunità ancora imbevuta delle tradizioni coloniali che i colonizzatori del Raj britannico avevano lasciato in eredità, tanto da aver ribattezzato il luogo Little England, Piccola Inghilterra.
Il romanzo narra i cambiamenti della città nel corso di un secolo attraverso le vite dei suoi abitanti: i funzionari britannici che vivevano come piccoli re, i funzionari indiani che ne prendono il posto dopo l’indipendenza e tentano di riportare in vita le tradizioni occidentali, mentre i poveri minatori locali che lottano per la sopravvivenza nelle miniere, rimangono servi sotto entrambi i padroni.
A tutto questo, si intrecciano il mistero dell’assassinio di un placido uomo angloindiano, Bertie Flanagan, ucciso subito dopo aver ricevuto la lettera di un centenario inglese, la storia d’amore fra la giovane indiana Arati e un uomo angloindiano e la passione di un funzionario inglese per l’indiana Ponni, che gli ha dato un figlio.
Interessantissime le descrizioni dell’estrazione del metallo nelle miniere, la loro atmosfera soffocante, di contro alle sfavillanti feste da ballo natalizie secondo le vecchie tradizioni inglesi.
È un viaggio nel tempo e nelle culture che si avvicendano nella città, ma è anche una mistery story in cui tutti i fili tessuti nella trama complessa del romanzo si raccolgono solo alla fine, in un colpo di scena degno del miglior giallo classico, che farà emergere un segreto antico di cento anni.
Francesca Diano
(C) 2015 by Gita Aravamudan e Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA