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Intervista a Guido Michelone

Creato il 07 luglio 2011 da Fabry2010

 

Intervista a Guido Michelone
Guido Michelone intervistato da Gian Luca Marino

su Parigi a Vercelli (Lampi di Stampa Editore, Milano 2011)
Guido Michelone, perché questo libro?

Scrivere è la mia passione autentica, anche se a pubblicare un romanzo sono arrivato tardi, forse anche dopo Umberto Eco, come età. La facilità – che ha sorpreso anche me – con cui sono riuscito a scrivere in poco tempo un romanzo di trecento pagine mi ha convinto ad andare avanti: però gli impegni davvero insormontabili che mi coinvolgono nell’arco dell’intera giornata per quasi 365 giorni all’anno (e parlo soprattutto di altre scritture dal giornalismo alla saggistica) mi impediscono di avere continuità nella narrativa, come pure nella poesia o nel teatro (altre due forme dalle quali sono tentato). Dopo Cinquanta. Secondo Novecento del 2004, avevo pubblicato A Charlie Chàn piace il jazz? due anni dopo, di fatto due lunghi racconti (con gli stessi protagonisti) di cui uno mio e l’altro di Biagio Bagini. Poi ho iniziato a scrivere il terzo o secondo romanzo e in parallelo molti racconti. A un certo punto, di colpo, all’inizio del 2011 ho deciso che dovevo uscire con qualcosa di nuovo: ho visto che nei miei cassetti (ma anche tra i files del computer) avevo parecchi racconti inediti; li ho raccolti in ordine decrescente ed ecco Parigi a Vercelli, non a caso con sottotitolo Diciassette nuovi racconti: più che nuovi sono inediti, perché scritti fra il 2000 e il 2010.

Che cosa racconta Parigi a Vercelli?

C’è un lungo racconto o romanzo breve che occupa metà libro che s’intitola J.-L. G., il falso Maigret e Boris Vian in cui un anziano regista parigino vive in incognito proprio a Vercelli per portare a termine la sceneggiatura per un suo film: incontrerà una bella ragazza, ma mi fermo qui. E poi gli altri sedici racconti sono quasi tutti molti brevi, a volte di una sola pagina, con dentro un po’ di tutto a livello di temi, soggetti, argomenti: ovviamente quel ‘tutto’ che a me interessa, consciamente o meno.

Ma a Vercelli, c’è un po’ di Parigi?

Direi di no, a parte il protagonista del mio racconto che ci vive per diverse settimane. Si tratta di uno dei tanti éscamotage o paradossi della mia letteratura: un voluto contrasto tra la città più bella del mondo per antonomasia e un cittadina che ai più, nonostante tutto, dice poco o nulla. In fondo era sin troppo facile o banale portare J.-L. G. a Capri, a Cortina o a Parma…

Nel primo racconto, Parigi a Vercelli mi ha colpito la minuziosa descrizione eno-gastronomica culinaria delle varie tappe nei locali. Sembrerebbe quasi che tu sia un cultore in materia. Cosa mi dici a proposito?

Un po’ lo sono, nel senso che non vado quasi mai a caso nei ristoranti: mi faccio raccontare come si mangia da amici e conoscenti e poi, se sono convivio, li provo. Ma ho sempre con me, in auto, una guida Slow Food. La buona tavola è un piacere o un hobby, è amore e cultura; infatti mi piace cucinare e cerco di mangiar bene in primis a casa mia.

Nei racconti si riscontra un linguaggio eterogeneo, vari stili letterari e narrativi. Una scelta voluta o un tuo modo di scrivere?

Entrambe le cose, nel senso che il mio modo di scrivere è quello di essere eterogeneo, di adottare o meglio sperimentare consapevolmente linguaggi diversi: credo però che non siano mai esercizi di stile fini a se stessi, ma sempre congeniali al tipo di argomento che ho voluto sviluppare, al come ho deciso di raccontare.

A quale racconto del libro sei più affezionato?

Non c’e n’è uno in particolare, ma alcuni verso i quali, alla fine, quando terminai di scriverli erano particolarmente fiero, anche se poi a mente non saprei elencarli tutti. Non sono uno che sa a memoria i propri libri, nemmeno i versi delle mie poesie riesco a ricordare. Forse perché sono sempre proiettato in avanti e quando esce un mio libro, sto già pensando al successivo. Quindi mi ‘compiaccio’ per Francine e Klaatu barada nikto o per Ragazze di Forzitalia, ma sono rimasto anche molto sorpreso quando un bravo attore di cinema e di teatro come Roberto Sbaratto ha letto, drammatizzandoli un po’, due brevi racconti come L’avvelanata e Faccio la puttana: quasi non li riconoscevo, non sembravano i miei, per i toni che ha conferito a entrambi. Io non saprei recitarli così e forse neanche ci penserei a tentare di leggerli così.

Cosa c’è di autobiografico nei tuoi racconti?

A parte Sette incroci straordinari (dove tutto è vero e non a caso farebbe parte di un progetto per un altro libro) e a parte Cento mi ricordo (che è davvero uno sforzo di memoria, ma anche un omaggio a George Perec) ci sono solo riferimenti molto lontani o indiretti sul piano del vissuto o dell’esperienza personale, ma c’è senz’altro la mia cultura un po’ folle che spazia su quasi tutto il Novecento dalla musica al cinema, dal fumetto allo sport, dalla televisione alla pittura contemporanea. Non sono uno dalla vita spericolata che si proietta autobiograficamente. Sono però uno che ha viaggiato abbastanza, letto abbastanza, visto molti film, ascoltato molti dischi e molti concerti e che ha studiato i meccanismi della comunicazione e della narrativa al punto tale da poter giocare – anche in senso sperimentalista – con tutti questi strumenti o linguaggi a seconda dei casi.

Ti senti quindi uno scrittore sperimentale?

Vorrei esserlo, cerco di praticare coscientemente una sorta di avanguardia nel cosa e soprattutto nel come raccontare, anche se poi, come dicevo, forme e contenuti, non sono mai disgiunti: l’avevano scoperto già i formalisti russi (padri della moderna semiologia) oltre ottant’anni fa. Non mi interessa la narrativa di consumo, il romanzo mainstream o international style, il libro che va in classifica: sono già in tanti a farlo o a tentarci; e il più delle volte, dopo aver letto questi libri (spesso di amici o colleghi) non mi resta proprio nulla, perché leggo fra le righe il desiderio che le loro storiacce (scritte spesso malissimo) diventino presto un film miliardario, che renda miliardari anche loro. Ma succede a uno su mille.

In quale personaggio dei racconti e in quale situazione meglio ti identifichi?

Tenderei a dire nessun personaggio e nessuna situazione perché sono tutti e tutte costruzioni (o elucubrazioni) del mio immaginario: non amo, come dicevo, la narrativa di consumo proprio perché usa questi meccanismi emozionali di forte identificazione in senso romantico drammatizzante, mentre io sarei per l’effetto epico di cui parlava Bertolt Brecht, già negli anni Trenta: teorizza in proposito la tecnica di straniamento per gli attori e la regia del suo teatro. Alla stessa stregua, il lettore, per me, non deve essere coinvolto, ma deve stare vigile e attento e prendere posizione a livello critico. Forse sarà un’utopia, ma questo secondo me è il vero messaggio o il credo genuino dell’avanguardia e della sperimentazione, che io modestamente cerco di applicare per tentare di fare qualcosa di nuovo o di diverso dal solito.



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