Magazine Cinema

Intervista a Mario Balsamo

Creato il 15 aprile 2013 da Oggialcinemanet @oggialcinema

mario-balsamo

Mario Balsamo e Guido Gabrielli sono i registi di un film/documentario sui generis che racconta con ironia e delicatezza un viaggio on the road. Il confronto tra due amici si articola attraverso il racconto della malattia che li ha accomunati, il cancro, ma anche dei bei ricordi e soprattutto dei sogni, uno dei tanti, incontrare il loro mito di sempre, l’immortale James Bond. Noi Non Siamo Come James Bond è una delle tante perle che l’ultimo Festival Internazione del Cinema di Torino ha regalato al pubblico italiano che tenta di inserirsi con convinzione in quel filone cinematografico in perfetto equilibrio tra dramma e commedia di cui Quasi Amici, La Guerra è Dichiarata e perfino Nanni Moretti con Caro Diario sono stati degni rappresentati.
Oggi al Cinema ha intervistato per voi il regista Mario Balsamo.

Il vostro è un documentario basato sulla storia di un’amicizia – quella tra lei ed il suo amico Guido Gabrielli – che parte da molto lontano. Era il 1985, cosa è cambiato da allora, che giovani eravate e cosa vi accomunava e cosa vi accomuna ancora oggi?
Allora eravamo giovanissimi, avevamo 23 anni ed eravamo pieni di aspettative e, se vogliamo, anche di presunzioni nei confronti della vita. Pensavamo di conquistare il mondo in maniera molto determinata ed energica. Lungo questo percorso ci siamo resi conto che il mondo che volevamo conquistare era affascinante ma che lo avremmo conquistato facendone parte. Più che imporre la propria individualità come sognavamo, ci siamo resi conto che l’essere umano, anche attraverso incidenti di percorso, rappresenta un tassello di questo enorme mosaico che è l’esistenza.

Qual è il tono prevalente di questo viaggio?
Ci siamo detti che non potevamo riflettere sulla malattia se non attraverso un tono ironico. Non volevamo che il racconto sfociasse nella lacrima o nella richiesta di pietà verso lo spettatore. Questo lo abbiamo escluso sin dall’inizio perché ci è sembrato un tono che non è mai appartenuto alle nostre vite. Io e Guido siamo persone che hanno sempre reagito alle circostanze della vita e che, anzi, hanno cercato di trarne l’aspetto positivo – la cosiddetta resilienza.

Cosa sperate di comunicare allo spettatore, qual è il vostro obiettivo?
Vogliamo raccontare una storia di amicizia che si contestualizza in un orizzonte che parte da un evento drammatico per far capire come da una parte possa essere superato ma dall’altra faccia parte della nostra vita. Vorremmo che lo spettatore assistesse a questa storia d’amicizia e, allo stesso tempo, guardasse a noi come ad un esempio di reazione propositiva ad una malattia importante.

Avevate qualche riferimento cinematografico per questo lavoro? Mi veniva in mente Quasi Amici per certi versi.
Di riferimenti ne avevamo tanti, alcuni anche inconsapevoli. Certamente uno dei primi film che parlò del tema anche se con toni diversi fu uno degli episodi di Caro Diario di Nanni Moretti. Comunque Quasi Amici si inserisce in un filone curioso, che fa pensare e che sta prendendo molto piede soprattutto all’estero e che noi con questo film tentiamo di importare in Italia. La malattia è un fenomeno sociale e le malattie importanti sono diventate talmente incidenti nella nostra vita che non se ne può non parlare. Parlarne, tuttavia, significa interrogarsi su COME parlarne. Questo filone che c’è adesso, che mi trova completamente d’accordo, propone di parlarne con la possibilità di un’autenticità maggiore, una volta che sei stato colpito da un incidente di percorso, come una malattia grave. E’ qualcosa che deve permetterti di riflettere ma allo stesso tempo di cogliere l’opportunità di dare un senso diverso alla propria vita.

Un film come Quasi Amici, nonostante sia stato accolto positivamente da larga parte del pubblico, ha ricevuto delle aspre critiche per aver trattato un tema delicato come quello della disabilità con spregiudicatezza e cinismo. Cosa risponde a chi sostiene che il documentario possa inserirsi sulla scia del reality, della spettacolarizzazione del dolore o del narcisismo?
Credo che per quanto riguarda il nostro film così come Quasi Amici o La Guerra è Dichiarata di Valerie Donzelli, che trattano tutti lo stesso tema, non vedo questo pericolo. Sono film che hanno un approccio alla malattia che può incedere nella commozione ma mai nella retorica del dolore. Credo invece che svolgano oltre a quella cinematografica, la funzione molto importante di far guardare alla malattia in maniera diversa. E’ anche vero che dinanzi a situazioni che sono andate peggio rispetto a come sono andate a noi, di persone che stanno subendo le conseguenze pesantissime di queste malattie, io sono il primo a chiedermi: “Ma questo film può essere offensivo? Il tono ironico con il quale trattiamo temi così gravi può offendere la sensibilità di qualcuno?.” Ogni volta, dopo la presentazione del film, sono io che faccio questa domanda al pubblico e fino ad ora la risposta è sempre stata positiva. Nessuno ha mai pensato che noi abbiamo contravvenuto ad una delicatezza trattando questo tema.

Che ruolo hanno la memoria, la nostalgia e il viaggio all’interno del docu-film?
Un ruolo fondamentale perché la memoria è la prima cosa che si recupera, o meglio, si rivisita nel momento in cui si è in pericolo di vita. E’ evidente che con il tumore, frantumandosi il senso della vita che fino a quel momento si è vissuta, si genera la necessità di rivisitare la propria memoria per ritrovare quel senso o trovarne uno nuovo che utilizzi il passato per realizzare qualcosa di interessante nel proprio futuro. La malattia stessa è un viaggio, un viaggio che io intendo come esplorazione attraverso il quale ci si mette a nudo e si riscopre se stessi.

Esiste una dimensione del gioco all’interno del film? Qual è stata per lei la parte più entusiasmante nel girarlo?
Messe da parte le ansie di portare a compimento un film che aveva un budget ridottissimo, quando giravamo realmente entravamo in una dimensione ludica che ci ha fatto comprendere come questo elemento della vita non vada mai trascurato. E’ fondamentale giocare con la vita e non prendersi mai troppo sul serio nonostante la drammaticità di determinate situazioni. La dimensione ludica assieme al senso dell’amicizia ci consentono di scivolare all’interno di questa vita in maniera simpatica.

Qual è il collegamento tra l’immortalità di un mito come James Bond e la malattia, come cambia il rapporto con la vita?
Il rapporto con James Bond è un rapporto per contrasto. Già nel 1985 quando viaggiavamo eravamo assolutamente sdruciti nel nostro modo di viaggiare e di vestire con gli zaini e i sacchi a pelo rispetto a lui sempre elegantissimo e perfetto. Ora, a 27 anni di distanza, ci rendiamo conto che lui è immortale e sempre più giovane nella scelta degli attori che lo interpretano e, anche se negli ultimi James Bond, come il bellissimo Skyfall mostra degli aspetti di debolezza, resta il mito del cinema dell’immortalità. Noi, per contrasto, siamo il mito della mortalità. Nel nostro film l’incontro con la prima bond girl Daniela Bianchi e la telefonata con Sean Connery ci fanno capire che non è che noi cerchiamo di avvicinarci a Bond ma è Bond che si sta avvicinando a noi, nel senso che arriva un momento in cui la vita va vissuta per quello che è.

Lei ha dichiarato che “i miti come James Bond aiutano a farci sentire meno soli”, come agiscono sulla nostra psiche?
Credo che la cosa più affascinante sia il mito cinematografico, la dimensione del sogno, il copione scritto alla perfezione per sapere sempre che dire nel momento giusto. Indipendentemente dal giudizio che uno può dare, di natura filosofica o politica, in Bond c’è un po’ il succo del cinema che racchiude in sé un elemento adolescenziale di rapportarsi con le storie e con la vita. Si tratta del mito della propria onnipotenza per poi rendersi conto nella maturità che il mito resta ma in una contestualizzazione diversa.

Possiamo dire che il suo documentario gioca sulla dialettica tra realtà e finzione. Come aiuta questo linguaggio a sdrammatizzare la rabbia e il dolore della realtà quotidiana?
Per un regista questo continuo scambio tra realtà e finzione è difficilmente eliminabile specialmente quando ci si trova a dover rappresentare se stessi all’interno del percorso narrativo come facciamo io e Guido. Per un regista è abbastanza normale questa continua oscillazione tra i due piani tanto è vero che certe volte viene da pensare che la finzione sia semplicemente un altro tipo di realtà piuttosto che qualcosa che si contrappone ad essa.

Voi avete reso la malattia stessa un personaggio, qual è stato il suo rapporto personale e cinematografico con questo personaggio?
Noi eravamo consapevoli che l’unico modo che avevamo per affrontare la dimensione della malattia e, soprattutto tutte quelle domande che ci si pone dopo aver superato la fase di emergenza, era quello di raccontarla. Volevamo confrontarci come se la malattia fosse un personaggio. L’unica persona che poteva accompagnarmi in questo viaggio, che lo aveva vissuto prima di me e che lo continua a vivere, era Guido. Insieme abbiamo capito che il personaggio della malattia si è presto trasformato nel personaggio dell’amicizia e in quello del viaggio. Il tema della malattia è scivolato dalla domanda “Perché ci siamo ammalati?” alla domanda “Perché siamo sopravvissuti?” e il film risponde a questo: noi in questa vita volevamo esserci!

E’ presente l’elemento della rabbia nel vostro film?
Non mi sembra. Se c’è un grande risultato che queste malattie portano, a volte solo temporaneamente, altre in maniera più duratura, è che sciolgono una certa rabbia, cercando di cogliere gli aspetti più importanti della vita e di goderne ogni giorno come se potesse essere l’ultimo. Questo film testimonia come la rabbia verso la vita si sia sciolta. La rabbia può essere forse rintracciata nel rapporto conflittuale che spesso abbiamo io e Guido ma che è legato alle nostre diverse personalità e ai nostri differenti percorsi di vita. Ma questa è la parte saporita della vita ed fa parte della riflessione e della crescita dell’amicizia stessa.

Avete vinto il premio speciale della giuria al Torino Film Festival e questo documentario è stato particolarmente apprezzato da Paolo Sorrentino e Carlo Verdone. Che risposta vi aspettate da parte del pubblico da un documentario sui generis come il vostro, considerato il successo quasi esclusivo delle commedie nelle sale nostrane?
Il primo successo è stato che più che essere inserito all’interno di un genere, il nostro lavoro è stato definito un film a tutti gli effetti, entrando di diritto nella competizione del Torino Film Festival. In questo modo è stato sdoganato il genere del documentario che viene spesso ghettizzato e relegato in un angolo. Paolo Sorrentino e Carlo Verdone si sono innamorati di questo film; Paolo ne ha colto l’ironia mentre Carlo la poesia e questo ci ha fatto enormemente piacere. Di sicuro dalle proiezione che abbiamo fatto abbiamo riscontrato una grande empatia nel pubblico nei confronti del film. E’ un po’ come se il pubblico sentisse autore stesso del film. E’ per questo che l’atmosfera di questo lavoro ci rende particolarmente felici e speriamo che anche gli spettatori riescano ad avere lo stesso tipo di atteggiamento.

Noi Non Siamo Come James Bond uscirà nelle sale italiane a partire dal 12 Aprile.

di Rossella Maiuccaro

Print Friendly

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :