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Intorno al Mausoleo dei Duchi Acquaviva di Nardò (Parte terza)

Creato il 05 ottobre 2012 da Cultura Salentina

di Paolo Marzano

 “… la sensibilità, che inevitabilmente confina anche con l’intuito dello studioso (e che quell’intuito per suo conto affina), è frutto della costante pratica dello studio dei documenti, delle fonti letterarie antiche e moderne, della visione paziente delle testimonianze figurative, dai più ‘vili’ manufatti ai capolavori della storia dell’arte […]. Il materiale è esaminato praticando un confronto tra le voci (le più diverse) che da esso emergono; i molti documenti chiamati in causa non sono però cementati insieme per costruire basi incontestabili a dimostrazioni forzate, ma sono accolti, anche nella forma dello scritto, come vere e proprie testimonianze da ascoltare direttamente, come ‘testimoni’ interessati nei fatti”.

Da: “Teoria e coordinate di metodo. Un esempio: Aby Warburg, di Katia Mazzucco in A.A.V.V., M. Centanni (a cura di), L’originale assente – Introduzione allo studio della tradizione classica”, Mondadori, Milano 2005.

Intorno al Mausoleo dei Duchi Acquaviva di Nardò (Parte terza)

Particolare della parte destra del Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona di Nardò del 1545, visibili le due Virtù Cardinali: Fortezza (sx) e Temperanza (dx)

 Il Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona di Nardò del 1545, entra a pieno titolo nella storia della scultura del Rinascimento in Puglia e del meridione d’Italia. Sempre più chiara, infatti, è l’indagine proposta che titola proprio “Intorno al Mausoleo degli Acquaviva di Nardò”, dove ‘intorno’, definisce il complesso sistema di relazioni che, una delle più antiche e nobili casate del Regno, realizzò, per secoli, dominando territori grandi quanto intere regioni.

Dalle caratteristiche rilevate del monumento e dalle attente analisi, dai confronti, dalle nuove interpretazioni e studi, diventa sempre più chiara l’appartenenza del Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona di Nardò, al periodo di transizione che va dal tardo Rinascimento fino a porre le premesse (ancora acerbe) del Barocco leccese. Ma, la presenza nell’opera, del complesso abbecedario scultoreo, utile per parlare ‘quel’ linguaggio, come vedremo, è già pronto.

Guardiamo allora, per l’appunto, ‘intorno’, all’opera in questione, cercando di comprendere quanto più è possibile, dalla sua storia, le attinenze e le assonanze con gli altri episodi di questo genere (cenotafi, mausolei, sacrari cappelle, ecc… ), esistenti in un vasto territorio/approdo,per il quale, il mare, ha rappresentato, a volte un ‘limite’ e a volte una strada trafficata e condivisa. La veloce riproposizione di formule stilistiche, con il loro carico simbolico e il loro potente cifrario hanno elargito dei codici nuovi, forse alternativi e comunque capaci di integrarsi autonomamente e di sovrapporsi fisiologicamente alla ‘lingua’ dominate o al ‘gergo’ corrente. Nel caso dei monumenti funerari, è chiaro l’obiettivo di perpetuare la memoria ‘scritta’ del defunto, in modo da far sopravvivere le sue doti morali, le virtù e le gesta, con puntuali codici figurativi. Il racconto scolpito, come nel nostro caso, regala al mondo dell’arte, un episodio artistico, in cui l’idea del tempo si avvale della cultura (in gran parte) di quel particolare momento per esprimere al meglio, le caratteristiche sociali, la levatura morale e civile di quegli uomini e delle loro azioni prodotte nella loro vita.

A Conversano, il monumento funerario di S. Maria dell’Isola, dedicato a Giuliantonio Acquaviva e Caterina del Balzo Orsini (1523-1524 iniziato da Nuzzo Barba, ma è più probabile l’intervento di diverse persone dell’area dello scultore galatinese, d’influenza e d’ispirazione anche dalmata), nella parte inferiore, apre con il serto di alloro. L’elemento, come ricordiamo, si trova  anche alla base della colonna coclide traiana romana e ‘antiquariamente’ ripreso ed inserito nei portali ‘ionico-albertiani’ napoletani. Nel monumento funerario, nella sua ‘preponderante’ soluzione, il serto viaggia come un ‘toro’, tutt’intorno al perimetro della ‘macchina’ scolpita, cingendola, asserisce l’Harsey (in “Il significato nascosto dell’architettura classica”, Mondadori, Milano 2001), come se si sviluppasse lungo le mura di una fortezza.

Qui, le quattro figure delle Virtù Cardinali, meritano attenzione nell’evidente ‘debole’ particolare anatomico. La sproporzione tra il tronco e le gambe, evidenzia l’esagerata lunghezza delle braccia che rimangono, per questo, tutte distanti dal busto, riprodotte quasi con la stessa inclinazione e apertura. La particolare ‘fissità’ seriale del viso e la capigliatura (compresa la sproporzione nell’altezza e delle sue parti), verrà riproposta al secondo livello, nei due angeli che aprono il drappo da cui si intravedono le figure dei destinatari, dell’altra opera  qual è il Cenotafio di Giovanni Antonio del Balzo Orsini (1562) a Galatina, nella chiesa di S. Caterina d’ Alessandria. Naturalmente il particolare del nastro intorno alle colonne che qui a Galatina rimane superficialmente decorativo, a Nardò essendo visibile sopra la testa delle Virtù, richiama il diretto significato del motto di Carlo V nello stemma reale spagnolo, dove le colonne d’Ercole vengono circondate dai due giri di nastro, con la scritta “plus ultra”, caratteristica che accomunava le varie colonie spagnole.

 

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A – Stemma scolpito sul timpano del frontone di Porta Napoli a Lecce. B – stemma sul frontone dell’entrata al castello di Carlo V a l’Aquila. Da notare le quattro colonne con il nastro intorno e la scritta, simili a quelle del Mausoleo dietro le virtù. Lo stemma con le colonne e il nastro, caratterizzava le colonie spagnole, il “plus ultra” scritto indicava il limite della terra conosciuta

 A Nardò, circa 20 anni dopo la costruzione del monumento funerario di Conversano, il Bellotto compone invece il suo complesso ‘apparato’, dove raggiunge, perfeziona e addensa richiami che valgono come un intero ‘stato dell’arte’ della scultura del Rinascimento della Terra d’Otranto scolpito e… in nuce. Diversi gli studiosi (Gelao, Arnolfi, Abbate, Brunetti) che hanno approcciato il monumento neritino, accertandone le sue non poche complessità, a volte riaggiornando le ipotesi o rivalutando, le sempre attinenti interpretazioni. Rimane il fatto che, a quell’opera, necessiterebbe accedervi, anche con altri filtri e considerazioni (reductio ad absurdum!?). Con la molteplicità dei messaggi trasmessi, ritengo, che il monumento apra diverse porte all’esperienza contestuale visiva ed intellettuale, per la curiosità e quindi per lo studio della sua sofisticata ‘matura’ storia interpretativa. Paradossalmente, il caso vuole, che l’opera sembra essere stata tanto, troppo ‘preservata’, da risultare praticamente sconosciuta, ai circuiti d’arte tardo rinascimentale della bella città ‘Italia’. Purtroppo la debole passione e la pigra non curanza per la cultura, di evidenti preziosità, vale quanto gli strati di polvere sui tesori, ne opacizzano il luccichìo, ma non ne azzerano il valore.

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Particolare del frontone e timpano scolpito della chiesa del Carmine a Nardò (1532)

Il Bellotto è indicato come autore anche per il portale della chiesa del Carmine di Nardò (1532). Una soluzione intermedia, questa, tra le pregevolissime opere napoletane antecedenti, quale il monumento funerario (1511) di Caterina della Ratta nella chiesa di S. Francesco delle Monache, per lo schema inquadrato da due larghi pilastri laterali con nicchie conchigliate e quello di Aniello Arcamonio (1513) nella chiesa di S. Lorenzo Maggiore per la figura del Dio scolpito ad ‘alto rilievo’ (con braccio benedicente ‘a tutto tondo’) con sviluppo, evidentemente triangolare, adatto per un timpano con frontone, inserito nell’arco, fittamente già decorato e voltato a botte (la generale gestione strutturale dei volumi, qui, abbandona la composizione architettonica per incentivare la saturazione della superficie, con ‘materiale ornamentale’ – la differenza è complessa – non ancora barocco, quindi, ma evidente l’uso antiquario degli apparati decorativi).

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Similitudini e differenze tra le maschere e i putti che sostengono le ceste tra il Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona e il portale con timpano della chiesa del Carmine a Nardò. La lotta giocosa tra putti, evidente sia nel mausoleo sia nel portale, deriva da un rituale di stimolazione di forze genetiche e di forze della vita vegetativa

 Se il portale è del Bellotto, allora i tratti e i volti dei ‘green man’ negli anfratti, come dei puttini che si confondono tra serpenti, draghi e fogliame dei girali, dell’opera, confermano, per l’ampia diversità calligrafica, un cantiere composto da diverse personalità collaboranti o la presenza di rifacimenti realizzati nel tempo. Di sicuro le figure del frontone del Carmine non appartengono alla stessa mano, degli stessi elementi, riportati nel Mausoleo degli Acquaviva.

Riposto in una stanza attigua rispetto alla sua antica posizione nella navata principale, dietro l’altare della chiesa di S. Antonio, il Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona di Nardò, che ha risentito, non poco, dello spostamento, continua ad evidenziare quella fantasiosa ricerca del dettaglio in maniera così insistente e quasi certosina (cesti di frutta in vimini contornati da putti festanti, poi le varie composizioni di fontane, grifi, draghi, delfini e profili antropomorfi si fondono come brani di citazioni ri-conosciute nelle diverse grottesche che riempiono paraste e lesene  salentine, pugliesi meridionali, italiane, europee). Singolare l’interessante, originale, attenzione alla proporzione delle figure delle quattro Virtù che riabilita l’ottima qualità espressiva nella manualità del gruppo di artisti che vi lavorarono (alquanto aggiornati sulle dinamiche artistiche e le possibilità comunicative; pronti a recepire le nuove fonti possedute dall’importante casata degli Acquaviva). Nelle serie di composizioni che si rivelano come un collage altamente connotato da un horror vacui enciclopedico e verticale, l’opera espone, dunque la sua didascalica ‘filologia antiquaria’ declinandone la eccedente complessità.

I diversi riferimenti simbolici e i rimandi stilistici consolidano quella scelta artistica maturata e guidata dalle due componenti essenziali dell’arte salentina; 1) l’artigiano, infaticabile ed estroso che conosce gli strumenti, le pratiche con tutti i limiti e le infinite possibilità espressive nascoste dell’intima struttura della materia lapidea,

2) il teorico che dal trattato o dal racconto, trae uno schema riassuntivo traducendolo in ‘consapevole’ e ‘responsabile’ quadro iconografico.

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Particolare del fregio nella parte sottostante il frontone della chiesa del Carmine a Nardò con puttini tra serpenti, draghi e fogliame dei girali

Questa dunque può riassumersi come una probabile strategia comunicativa che ascolta, assimila, quindi interpreta, proponendo l’unicità della sua ‘opera d’arte’, ‘recuperata’ (fondamentale il termine), da tanti ‘modelli di viaggio’ o ritrovati sul posto come reperti appartenenti al passato, assorbiti nel tempo dall’ottima manualità locale. Non dimentichiamo però la confluenza di altri fattori, per nulla secondari, capaci di dinamizzare, se non reinventare o addirittura ri-creare, ambiti di discussione e rinnovamento dei linguaggi espressivi artistici.

Ritengo essenziale che il nostro discorso e le ipotesi qui riportate inerenti l’arte e l’architettura salentina, parta da un’ipotesi già discussa, ma che è bene ricordare; tra i primi del quattrocento e fino alla seconda metà del cinquecento il contesto storico artistico va inserito in un modus operandi sia artistico che intellettuale, fondamentalmente appartenente ad una efficace e sempre interessante filologia antiquaria.

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Particolare del frontone e timpano con l’inserimento della scultura ad alto rilievo e a tutto tondo

Ritengo che sia importante, per maggiore chiarezza di questo concetto, annoverare le caratteristiche peculiari di una figura importante del panorama storico neritino. Ambrogio Salvio, è vescovo, domenicano a Nardò, proprio a cavallo della battaglia di Lepanto (1571). Dal 1569 al 1577 la sua figura giganteggia nel Salento. E’ organizzatore, a Otranto, del sinodo che cercherà di far recepire tutte quelle regole conseguenti al complesso Concilio di Trento. Amico del Papa Pio V, il Salvio inizia la ‘limitazione’ del rito greco e, molto probabilmente, secondo i dettami dell’ordine monastico a cui apparteneva, “inglobandone” e ri-simbolizzandone significati, termini scultorei ed architettonici. Rinnova oltreché culturalmente anche urbanisticamente gli ambiti domenicani di Galatone, Muro Leccese e, a Nardò, compie una vera e propria importante innovazione nella diocesi. Prima di Nardò, il Salvio è a Roma durante il sacco (1527). Per comprendere la grande passione e l’intellettuale caratura dell’uomo, si preoccupò di preservare dal saccheggio, numerosi arredi sacri e oggetti preziosi della chiesa gotica domenicana della Minerva. Partecipa all’Inquisizione di Como col Ghislieri, futuro Papa Pio V, poi è a Napoli come priore presso S. Pietro Martire dove si dedica a creare forme di arredo religioso. Ed è per questo atteggiamento di colta attenzione per le forme, per la loro difesa e tutela, con spirito di conservazione, che la sensibilità del Salvio, indirizza verso gli oggetti, mi sembra opportuna e possibile per provocare l’ispirazione dell’uso di quei putti reggi stemma, come vettore comunicativo, da adottare per il programma iconografico e scultoreo dell’originale e preziosa facciata del S. Domenico di Nardò.

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Confronto tra i putti angolari reggi stemma, seduti nella voluta-mensola, dell’ingresso ‘ionico albertiano’ del Palazzo del collezionista Diomede Carafa a Napoli e il putto-omuncolo reggi libro, seduto nella voluta-cartiglio della facciata di S. Domenico a Nardò. Se ne contano 11, posti dentro volute-cartiglio aperte

… Molte cose si illustrano della storia ecclesiastica di Nardò, ed eruditamente si ragiona dell’uso di conservare la S. Eucarestia nelle chiese, dell’antica forma del coro e del greco rito d quella chiesa”,

da Paoli S. in Vita del venerabile monsignor F. Ambrogio Salvio dell’ordine de’ Predicatori eletto vescovo di Nardò dal santo Pontefice Pio V. e di altre notizie storiche spettanti a quella chiesa. Benevento. 1716.

 

Di certo il Salvio, non poteva non conoscere, il prezioso palazzo di Diomede Carafa e specialmente il suo interessante portale d’ingresso alla maniera ‘ionica albertiana’ antiqua (anche Palazzo Petrucci a Napoli edificato nel primo quattrocento dai ‘del Balzo’ riporta la colta soluzione antiquaria d’entrata, in particolare i putti reggi stemma e del serto di alloro). Ma occorre fermarsi ad osservare i due putti “che siedono nelle volute angolari” assolvendo alla funzione di ‘reggi stemma’.

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Esempio raro nell’araldica, l’uso di ‘arricci’ di cartiglio ‘forati’. Anche se, le diverse volute e arricci, forati, diventano ‘poetica’ e molto probabilmente ‘maniera’ tarantiniana. Da far risalire ai particolari ‘legacci’ para-polsi e gambali para-stinchi di cuoio usati nel vestiario bellico medievale, nel Rinascimento comparvero poi, al posto dei legacci, delle fibbie metalliche)

Allora, siamo di fronte ad un putto reggi stemma posto dentro un cartiglio? I paradossi e le soluzioni architettoniche seguono spesso questi ‘anacronismi’ nelle immagini e ne alterano i loro significati (G.D.Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati-Boringhieri, Torino 2007), specialmente quando siamo davanti ad una forma di filologia antiquaria necessaria proprio per quel momento storico, nel quale occorreva spiegare, nel modo migliore e più semplice, possibile argomenti complicati. Infatti, quelle  “regole figurate”, traducono delle istruzioni per l’uso ‘teologico’ della disciplina, spiegando le norme per la salvezza dell’anima. I putti reggi stemma ‘abitano’, dunque, delle volute (interpretate da me come ‘cartigli aperti’) nell’atto di declamare con la loro sola ‘postura’, le norme per quella popolazione da ‘contro-riformare’ ed educare cristianamente. “Concetti rappresentati”, sulla facciata del S. Domenico di Nardò come fosse un reliquiario o la pagina di un complesso codice miniato o come ancora identifica il Manieri-Elia (in M. Manieri-Elia e Maurizio Calvesi, Architettura barocca a Lecce e in terra di Puglia,Bestetti edizioni d’arte Milano, Roma, 1971) come “modelli di avorio o alabastro cesellato”, (tutte condizioni, se ci pensiamo bene, di realtà espressive e di tesori artistici, sicuramente alla portata di un teologo domenicano). Quante volte infatti sarà capitato che Ambrogio Salvio abbia osservato attentamente, con la sua indole dedita alla progettazione di forme e arredi sacri, quei putti reggi stemma del Palazzo del collezionista di reperti e spolie classiche, Diomede Carafa (della Stadera), a Napoli? L’ispirazione e la progettazione, nell’arte, può veramente dipendere da sfumature e tramutare in architetture le emozioni o gli oggetti del quotidiano, alterandone dimensioni e gli elementi costituenti, indirizzandole verso la più probabile e più semplice comunicazione ‘volumetrica-scultorea’, diretta all’informazione che si vuole dare.

A quanto pare, il vescovo di Nardò Ambrogio Salvio, volle e scelse, con poche e semplici direttive progettuali, la soluzione che poi, il Tarantino (costruttore neritino), seppe tradurre in una facciata, totalmente diversa dal suo modo di costruire, per cui certamente suggerita da un programma iconografico ‘estraneo’, molto curato, diretto e ‘colto’ (almeno nella parte del primo ordine della facciata del S. Domenico di Nardò. La parte sovrastante, infatti, evidenzia contrasti, attriti e ‘urti’ volumetrici ancora da chiarire).

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Particolare della facciata superiore del S. Domenico di Nardò. Disomogeneità del trattamento compositivo tra la tipologia fittamente decorata della finestra tripartita centrale che ‘urta’ con le sue cornici, spingendo senza regola sulle eleganti paraste estroflesse laterali. Ritengo che qui sia evidente l’incontro-scontro e spinta, di due visioni progettuali; quella antiquaria (finestra tripartita centrale) con quella ‘di maniera’ ormai tardo rinascimentale, una verticalità silenziosa ed opportuna, tarantinianamente razionalizzante, capace di smorzare l’insistenza dei due grandi capitelli dell’ordine gigante adottato

Un altro confronto per comprendere come un oggetto, (profilo di una forma decorativa), può nella sua elaborazione e nelle sue varianti interpretative, risultare strutturante per una “linea architettonica” adattabile che traccia geograficamente un modo di progettare altamente comunicante e per questo riconoscibile. Si tratta di un profilo recuperato da una cimasa tardo-gotica usata serialmente in diverse realtà (dalle cornici dei famosi polittici tardogotici, a cornicioni di costruzioni, ad altari, ecc…) possa trasformarsi in un ‘fuori scala’, nella sagoma della composizione di alcune facciate.

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Particolari cornici formate da profili e cimase gotiche e tardo-gotiche, in uso per polittici, cori, balaustre, ecc…

Qui, rispetto alle altre facciate, il gioco tra parti convesse e concave, diventano componenti essenziali della carenatura dell’arco. Da osservare che i lobi laterali, nei casi in cui superino il quarto di cerchio, come osserva la C. Gelao, (Puglia rinascimentale, Jaca Book, Milano 2005), ritengo possano ascriversi a delle sperimentali varianti di facciate derivate dalle sviluppo trilobate del profilo mistilineo, confermando la continua  pratica sperimentale artistica della “linea adriatica” (Giorgio da Sebenico, dalmata, attivo negli approdi di Venezia, Rimini, Ancona) ed è giusto che la facciata del duomo di Sebenico 1475 sia assonate a quella adottata da Leon Battista Alberti nella soluzione del Tempio Malatestiano del 1451, non costruita, ma raffigurata poi sulla medaglia di Matteo de’ Pasti.

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Episodi architettonici (antiquari) delle diverse facciate della “linea Adriatica”:
A – Manduria (Ta) S.S. Trinità 1532. B – Laterza (Ta) Chiesa Matrice di S. Lorenzo martire 1414. C – Mottola (Ta) Chiesa Madre di Santa Maria Assunta 1507. D – Ostuni (Br) chiesa di Santa Maria dell’Assunzione 1495

Un’origine compositiva dunque come ‘prova’ da laboratorio inserita in una prassiantiquaria’ intesa come lavoro di ricerca e di adattamento, fino a sfiorare la speculazione intellettuale dei termini di lavorazione, e così diventando ‘oggetto di maniera’ (“del canale adriatico”, la via dell’acqua italo-dalmata e veneto-salentina, aggiungo io). Mutazioni formali di un linguaggio che, come già osservato, si riferisce con certa e dichiarata formale assonanza alla sagoma scolpita nella Santa Maria Maggiore, la chiesa progettata al posto del duomo di Milano, il cui chiaro impianto di facciata è nello stemma della fabbrica del Duomo (XV secolo) con la Madonna che in un gesto simile a quella centrale del polittico della Misericordia di Piero della Francesca (1462), mostra il progetto dell’antica cattedrale ponendolo sotto la sua protezione. A questo, aggiungiamo l’altra facciata dell’episodio raffigurato, al Palazzo Ducale di Mantova dal titolo “Espulsione dei Bonacolesi” di Domenico Morone (1494). Le sperimentazioni trilobate con carenatura, continuano sul modello sostenuto nel  San Girolamo 1476 nei Musei della città del Vaticano, di Bartolomeo Vivarini (Gelao, 2005 pag. 21). Per confermare i contatti della “linea navale adriatica”, di un intagliatore veneto nel 1460 circa, è invece l’altare dell’Incoronazione della Vergine in Santa Maria alle Isole Tremiti.

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E – Particolare del dipinto “La cacciata dei Bonacolesi” di Domenico Morone oggi al Palazzo Ducale di Mantova. La facciata della Cattedrale di S. Pietro poi distrutta (tardogotica) del 1400.F – Santa Maria Maggiore Treviso 1473. G – Fabbrica del Museo del Duomo con Facciata di S. Maria Maggiore XV secolo Milano Museo del Duomo

Altro esempio di confronto e integrazione artistica e culturale è, ancora, l’equilibrio tra gli interessi letterari e la strategia bellica, che consolidano sempre più i contatti con Venezia, con le Fiandre, Napoli e la Spagna degli Acquaviva. Quindi, la presenza d’illustri personaggi alternatisi alla guida delle istituzioni sia civili sia religiose, nella storia del Salento, hanno aggiunto le proprie esperienze, le passioni, i nuovi sistemi e i metodi di organizzazione, importanti per lo sviluppo e la maggiore completezza del paesaggio culturale-artistico della zona della Terra d’Otranto.

E’ fondamentale ricordare ad esempio che per una parte della facciata di S. Croce a Lecce, in particolare, la sontuosa, spettacolare, scenografica, balaustra, sostenuta dai telamoni, si sia fatto riferimento (molto probabile) alla manualistica di Cesare Cesariano (in particolare, il suo testo nel 1521 con disegni e schemi) del porticus persica, in particolare applicando la variante “E”, rispetto alle “M” o “N”, mentre la variante “F”, diventa modello di partizione con ‘cariatidi’, comune a molti dei ‘cenotafi’ meridionali e quindi anche salentini.

Intorno al Mausoleo dei Duchi Acquaviva di Nardò (Parte terza)

particolari ‘reggitori’ nel Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona di Nardò e del XVI secolo nella scenografica balaustra della facciata di S. Croce a Lecce XVII secolo

A tutto questo sommiamo, l’incessante passaggio, per queste terre, di flussi commerciali (ricordo che la Serenissima Repubblica veneziana, ‘approdava’ comodamente nella maggior parte dei territori, dalle Fiandre al bacino del mediterraneo: Tunisi, Tripoli, Malta, Corfù, Alessandria, Cipro, e da Costantinopoli nel Mar Nero), quindi, la presenza di una forte comunità a Lecce, era fisiologica per la presenza di popoli e oggetti ‘nomadi’ che, nel tempo e grazie alle rotte commerciali, si spostavano per terra e per mare. Dopo la battaglia di Lepanto (1571), dunque uomini, mezzi, razze, merci, stoffe, cibi, spezie, armi, attrezzi, più facilmente di prima, collegavano feudi e corti. Che, a loro volta, attiravano artisti e costruttori, ma soprattutto la presenza dei vari ordini monastici e l’organizzazione dei diversi monasteri e chiese, polarizzavano una quantità considerevole di necessari arredi religiosi, quindi, un traffico indifferenziato di cibori, tabernacoli, evangelari, reliquiari, cenotafi, retabli, piviali, pastorali e arredi sacri (altare, arca, pulpito, paliotto, candelieri, calici, leggii, colonne candelabre), oppure i rapporti tra collezionisti creava altri contatti e spostamenti di tesori, miniature per corali, polittici, cammei di avorio o alabastro, augustales. Tali ‘oggetti’ venivano costantemente, come un immenso catalogo, sottoposti, dagli artisti locali, ad una glittica fantasiosa e flessibile, di frequente re-interpretata e ri-adeguata ai bisogni. Essa cristallizzava, l’operosità e l’uso della tecnica nel tempo, mutando continuamente l’oggetto d’arte. Ecco perché, per esempio, un tabernacolo poteva assolvere al compito di modello per la facciata di un tempio (e viceversa). Ma soprattutto non possiamo sottovalutare lo spostamento della ‘trattatistica’. Documenti e manuali, infatti, con apparati teorici architettonici e descrizioni dettagliate di modelli già consolidati e culturalmente definiti, distribuivano idee e guidavano a nuovi significati. Processi costruttivi, schemi iconografici ben organizzati, includevano le possibili trasformazioni e le varianti da decidere in loco a seconda dei dettami del priore di turno o del nobile ispirato. Ma soprattutto a conferma dell’aggiornamento artistico e la colta competenza, sia dell’artista, sia dei suoi committenti.

La cultura, la creatività e la tecnologia sia artigianale sia cantieristica del tempo, testimoniano l’alto livello dei ‘mastri costruttori’ e, ancor meglio, il progetto del messaggio che l’opera doveva comunicare secondo i lungimiranti piani di lucidi e colti committenti.

Di certo, giungere a delineare il probabile stato dell’arte e dell’architettura rinascimentale in Puglia e nel Salento, è arduo e pone non poche difficoltà. Ma questo, credo rientri, nel normale processo di crescita e nell’evoluzione di una reale volontà di fare, ancor oggi, ricerca architettonica.

N.B. Materiale d’indagine e di approfondimento per i confronti con i dettagli ed i particolari ‘finimenti’, delle opere del Bellotto nel Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona di Nardò del 1545 e le colonne del Riccardi a Otranto 1524 osservare le immagini delle colonne A B C D del ciborio cinquecentesco, nella cattedrale di Otranto, della cappella dei Martiri “Hubert Houben, Gabriele Licciardo (Riccardi), una figura enigmatica del Barocco leccese, in Kronos n.9, SEGNALAZIONI pag. 167  interessanti fotografie dei particolari delle colonne anche in Gabriele Riccardi e il suo ambiente in M. Manieri-Elia e Maurizio Calvesi, Architettura barocca a Lecce e in terra di Puglia, Bestetti edizioni d’arte, Milano – Roma, 1971.

 

[N.d.R.: Le foto del Mausoleo dei duchi Acquaviva d’Aragona di Nardò sono di Fausto Laneve, (per gentile concessione di don Fernando Calignano)]

Intorno al Mausoleo dei Duchi Acquaviva d Aragona di Nardò 1545

(Prima parte)

(Seconda parte)


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