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Introduzioni: Maurizio Gramegna

Da Narcyso

Maurizio Gramegna, SILENZI A MEMORIA, La Vita Felice 2011
Collana Sguardi
Direzione: Gabriela Fantato
Redazione: Sebastiano Aglieco, Luigi Cannillo, Corrado Bagnoli

UNA TOPOGRAFIA DI NOMI

Introduzioni: Maurizio Gramegna
Un bambino cammina accanto a un vecchio la cui pelle sa di durezza, di terra e di fatica. Mano nella mano, il passo breve, come sono i passi di un bambino. Non chiede: “Cosa puoi chiedere a una quercia/se non di poterla guardare?”. Siamo all’inizio, “quando i giorni hanno misura di cortile”, e il cortile è il solo luogo conosciuto, la mappa, minima, per non perdersi e imparare a sopravvivere.
Si potrebbe parlare così di queste poesie, raccontandole come quadri della nostra infanzia, di tutto il tempo che ci ha preceduti. Il racconto vuole un perimetro abitato fatto di persone, oggetti; nomi, soprattutto. E’ l’epoca aurorale della formazione e della crescita, delle necessarie cadute sbucciandosi le ginocchia e delle domande senza risposta.
Le parole, insomma, a volte devono farsi concretezza di segni, “appese come uccelli ai fili della luce”. E breve e semplice deve essere la casa; un cerchio, un recinto sotto le lenzuola, o un “fuoco di campo che allontana i lupi”; mentre il fiume, quando è tranquillo, dà misura, salici e sambuchi, forma e cornice; perché il senso delle cose è anche pericolo, può essere “la piena di argilla che si spacca”.
Maurizio Gramegna indica in questi suoi testi onesti e limpidi, la vicinanza che ci rende fratelli delle cose: fratelli dei pioppi, soprattutto, che non hanno pudore nel perdere le foglie, “nell’esser meno di ciò che si è già stati”. Un viaggio a ritroso verso la sorgente, accettando l’essere fiume in balia degli sconvolgimenti delle correnti e del nuovo paesaggio disegnato dopo le piene. Farsi viaggiatori, con la lentezza paziente del fiume che sa attendere e “conosce il luogo e il tempo”.
L’accettazione del proprio “marcire” si pone nella linea di una evoluzione ciclica in cui le stagioni celebrano il loro splendore e il loro scolorirsi, trascinando con sé il corteo delle creature gaudenti e affamate, i morti e i nascituri, il tempo della carestia e quello del raccolto mentre tutto viene accompagnato verso “il tempo della croce”.
Il poeta, qui, non vive la città, i teatrini dello spreco e del lusso. La sua casa sono i boschi, il fiume e i suoi greti, la campagna abitata dal vento che porta “altre voci”. Un paesaggio reale ma anche significante, dove, in assenza di acqua, “le crepe più profonde/scopriranno radici”, feritoie. Dove la pioggia è “il pianto/che redime facendosi spazio/nel cavo della mano”. Perché qualcosa è andato perduto: il bosco si è ammalato, le nutrie mangiano gli argini, il rifugio dell’infanzia è dimenticato, il sambuco sconfitto.
In questa topografia di presenze e perdite puntellate di mani e oggetti per non smarrirsi, sembra a volte assistere alla cerimonia di gesti cerimoniali da evocare e consegnare ai nuovi nati: rimettere le pannocchie nella brace, cercare il grano nuovo, “raccogliere l’acqua per togliersi la sete”; chinare “il capo/come davanti al fiume/o a una montagna”.
“Il mondo che conosco sta in due finestre/una guarda al piano, l’altra
alla collina”; non c’è scampo al vuoto, non c’è “nessun eroismo nel resistere”. “Tutto giunge di lato (…), l’erba di gennaio è stanca,/la stessa luce è stanca”. Niente chiede di essere veramente spiegato, ma solo di poter resistere all’avanzare dello spreco e della modernità.
Maurizio Gramegna ritorna, appunto, a questi fiori, sassi, fogli, acqua, cielo del suo Oltrepò pavese favoloso e realistico insieme, luoghi che sono stati e ancora vogliono essere, quasi a restituire agli occhi nuovi del bambino la domanda malinconica dell’inizio, lo stesso stupore delle voci che hanno abitato la sua infanzia. Voci che sono rimaste in un’aula di scuola, quando i pensieri, se non avevano ancora parole, avevano, tuttavia, la forza e la necessità dell’urlo: “Perché dentro agli occhi avevi le parole/frasi senza voce sospesi tra le ciglia/gridate come un urlo/come a guardarlo/dipinto sulla tela”.

Sebastiano Aglieco

II
Andavo, e solo a tratti guardavo
quel berretto, la giacca dura
da chiudere col freddo,
e mi dicevo: “zitto”.
Cosa puoi chiedere ad una quercia
se non di poterla guardare?

*

VII
Ora è solo ombra contro il muro,
e nell’ombra che trema c’è luna
da seguire,
c’è il bianco delle notti con la neve,
quando è più chiaro l’orto,
e puoi guardare.
Tirare le lenzuola è farne casa,
fuoco di campo che allontana i lupi
fino al cerchio del tuo corpo,
e spettro dentro spettro, una difesa.
Sarà un breve buio, e all’improvviso
un aggirarsi in altri cortili.

*

VIII
Trovare il segno scomposto dentro al volto
prima che i fogli cadano ad oscurare specchi.
Andare senza indizio, senza un sole
né sassi sulla strada.
Un lampo, o forse un colpo alla finestra
una finta porta ad ingannare il vento.
Questi sono i giorni di forza e di bellezza.

La piena del fiume è più paziente
sa muoversi lenta o con furore
conosce il luogo e il tempo.

*

Non è vero che basterà la pioggia
a fecondare i nostri aridi campi.
Sarà solo un trasferirsi d’acque
un ventre bianco disseccato dal tempo
dove il seme non darà mai frutto.
Sarà che crepe più profonde
scopriranno radici, sempre più simili a fusti
come silenziose ferite suturate.
Per questo servirà il pianto
che redime facendosi spazio
nel cavo della mano, per questo il canto.

*

Sono mille anni che sto qui
ma avrò vissuto un giorno
solo quando il primo sorriso
sarà sbocciato oltre il fiume.

E’ sempre difficile tornare a casa.

Ora vesto un pallido orizzonte di colline
goccia a goccia.

La pioggia non spegne il desiderio.

*

Il mondo che conosco sta in due finestre
una guarda al piano, l’altra alla collina.
Ora è solo la notte a difenderci dal cielo
a farci scudo di ragnatele e mani.
Si vive un’attesa che sa di sconfitta
che ancora odora di sangue e di ferita.
Tutto giunge di lato.
Stiamo vegliando inutilmente,
anche stanotte non verrà la civetta.
L’erba di gennaio è stanca,
la stessa luce è stanca.

Non vi è alcun eroismo in quel resistere
in quel segnare insieme un’ombra
eppure li diresti emblema, e santi.


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