"Il problema della nudità non sorge affatto" recita una delle danzatrici, utilizzando provocatoriamente il termine "problema". Ci troviamo davanti tre corpi di donna: si presentano statuarie nella loro nudità, non un solo tremore.
L'angolazione delle luci è perfettamente orientata alla valorizzazione dei corpi delle ragazze: ombre e chiaroscuri. Sembra di essere di fronte, più che a delle statue, a dei dipinti morbidi nella cui "immobilità non vivente" si crederebbe, se non fosse per la pelle riscaldata dai fari a luce calda.
Ottimo il gioco delle luci che si alternano in un ritmo crescente fino alla violenza di una luminosità abbagliante che, solo per un attimo, rende la nudità meno discreta ed elegante.
Le statue prendono dunque vita e i primi movimenti sono sforzati, storti, sforzatamente storti; è la difficoltà d'inseguire dei modelli preimpostati. Nell'intro di Invenzioni a tre voci avevamo avuto l'impressione di spiare le ballerine ancora in vestaglia, intente a sfogliare delle riviste, simbolo degli stereotipi che ruotano attorno alla figura femminile ed alla sua definizione. In fondo è - anche - questo il tema dello spettacolo coreografato e diretto da Roberto Zappalà (e da noi ammirato presso Scenario Pubblico a Catania), questione tristemente quasi inflazionata e per tale motivo di difficile trattazione, se si vuole fuggire lo spettro della banalità. Le ballerine guardano queste riviste, provano a imitare alcune delle pose che osservano; la metafora è compiuta ma Zappalà la legge in una chiave originale: pericolo scongiurato.
Le pose a cui ci si era esercitati vengono quindi riproposte in maniera completa nella coreografia dal ritmo incalzante. Lo sguardo dello spettatore è in qualche modo catturato dalla danzatrice centrale (Valeria Zampardi) e dalla sua ossessione per i tentativi di mantenere il piede sinistro in posizione innaturale. Tale esercizio artificioso fa da contraltare ai virtuosismi del pianista Luca Ballerini che esegue dal vivo (alternandosi ad Adriano Murania alla viola) musiche di Johann Sebastian Bach, fra cui Invenzioni a tre voci per pianoforte che dà il titolo alla performance.
Dicevamo della spigolosità dei movimenti forzati. Probabilmente cela la difficoltà di rimanere imprigionati: "Tutte le statue sono prigioniere dei loro contorni". Entità, voce dentro i confini di un corpo: "Je suis mon corps". Una delle danzatrici, la francese Maud de la Purification, recita alcuni degli spunti di riflessione dello spettacolo; l'eleganza è insita nelle sonorità della sua lingua madre, che Zappalà utilizza sapientemente, come pure nella dolcezza della sua voce.
Fra i movimenti ricorrenti vi è quello della mano posata alternativamente sul seno e sul cuore: cuore che poi si stacca dal corpo e viene osservato come a sé stante, nel palmo della mano. Molto efficace l'immagine dei battiti, la cui forza vitale è resa da sonori schiaffi.
Segue quindi il contatto fra le tre diverse statue. Si rincorrono, si sostengono fisicamente o si aggrappano fastidiosamente, si seducono, si imitano in perfetta empatia e coordinamento: è il corollario completo delle relazioni umane che giunge infine al distacco dell'emancipazione. La tensione cresce, in accordo all'"arrossarsi" delle luci in scena, fino al culmine: le tre donne, silhouette slanciate in controluce, si preparano in una corsa, che nel suo ralenti è celebre metafora dell'evoluzione. Si corre in avanti e all'indietro per trasformare poi la nobile metafora nell'immagine di un jogging contemporaneo (che, ancora una volta, ci riporta alle esigenze di una forma corporea obbligata a rincorrere degli stereotipi). La corsa è infine anche rabbia, ben resa dal monologo di Gioia Maria Morisco Castelli.
Torna dunque l'interazione fra le tre figure: si condizionano reciprocamente quando utilizzano le braccia distese come indicatori di orientamento. Molta visibilità è data alla soluzione dei "sollevamenti reciproci": le danzatrici saltano non prima di aver rivolto alle altre una dispettosa occhiata in segno di sfida; queste reagiscono sostenendo il salto delle altre, alternativamente. Mi sembra di leggere in quello sguardo una sorta di compiacimento, nel dimostrare un'agilità le cui conseguenze vengono con leggerezza addossate alle altre, che ne sostengono il peso.
Il richiamo ad un istinto quasi primitivo è accennato ancora in quella che comincia come la parodia di un ballo cordiale ottocentesco, per trasformarsi in un gioco di forze che ricorda la caccia. Altro momento particolarmente intenso è quello del dramma della danzatrice Gioia Maria Morisco Castelli, che si abbandona ad una mimica a tratti melodrammatica. L'interrogativo della reazione da accompagnare a tale abbandono disperato, sfiora soltanto a tratti le due compagne, le quali a volte la scherniscono senza mai incontrarne lo sguardo. La danza come codice espressivo delle relazioni umane attraverso sfaccettature emotive: ansia, determinazione nel raggiungimento degli obiettivi, punti di contatto e ricorrenza degli atteggiamenti.
Il punto di partenza era e resta comunque il corpo, le cui potenzialità sono state a questo punto indagate, seppur in minuscola parte: "Nel mio corpo, un miracolo che non stupisce come dovrebbe". È la constatazione che ci restituisce la vastità della questione, comunicata dalla danzatrice Valeria Zampardi, con tutta la forza espressiva della sua inflessione palermitana.
Tutto questo universo espressivo è studiato dallo sguardo impassibile del "coreografo burattinaio" che lascia sfogare le sue creazioni per osservare la direzione intrapresa. Le lascia piegarsi, spiegarsi, spiegare le proprie potenzialità per giungere ad una presa di coscienza che è conquista ma anche punto di partenza per evoluzioni successive: "Il corpo c'è".