Magazine Maternità
Sulla punta estrema del golfo di Sirt, anticamente popolato di mostri marini di ogni sorta, si estende Misurata, che per quanto possa sembrare per un imbroglio linguistico, non si chiama così in virtù di una sua particolare qualità di misuratezza, allargandosi essa anzi in tutte le direzioni a macchia d’olio finché l’occhio permette di abbracciare l’orizzonte, dal mare all’entroterra, dove, chissà quanto più a sud di qui, la terra si fa arida sabbia, deserto sconfinato. Sconfinato è l’aggettivo che più si addice anche alla città, smisurata, più che Misurata, immisurabile poiché non sono chiari i confini di dove comincia e dove finisca.
Campagna e periferia si mescolano ai suoi margini, mercati di cammelli e discariche, dove la popolazione incenerisce da sé i propri di rifiuti urbani, si alternano a nuovi aggregati abitativi, campagne private coltivate e prati incolti, pascolo di capre e pecore prive di pastore, pochi chilometri ancora, e poi di nuovo case.
Dovessi scegliere per lei una città invisibile quella sarebbe lei: Pentesilea.
E davvero Misurata, o Mas’ratha, con buona approssimazione di pronuncia, onde evitare equivoci etimologici, mi è apparsa invisibile, se mi si passa l’antitesi, perché non l’ho vista realmente, se non come apparizione fugace di scorci di strade e palazzoni diruti, facciate crivellate di colpi di mitra e di mortaio, figure umane che si aggirano di quando in quando in quando come fantasmi, incappucciati in pesanti mantelli e pastrani di cammello, quasi esclusivamente di sesso maschile, la merce esposta sotto le tende delle botteghe on the road, file e file di piatti e vassellame di terracotta o cassette della frutta, teste di mucca e cammelli appese come sinistri trofei fuori dalle macellerie, tra carcasse squartate in bella vista.
Ho percorso Misurata quasi solo in auto. Scendere e girare a piedi sarebbe una follia: le sue distanze sono vaste, le sue strade larghe e dritte, sembrano senza fine, tutte simili le une le altre, e non c’è una meta a cui puoi dirigerti, riferirti, ché pare inevitabile tu ti vada a smarrire. Le sporadiche piogge invernali bastano a far sì che le strade, già dissestate in seguito alla guerra, si allaghino in molti punti, e il livello uniforme dell’acqua nasconde ai viandanti le grosse buche scavate dalle bombe sul manto stradale.
Immensa piana polverosa, con pochi, identificabili profili verticali, le torri delle moschee, tanto simili ai nostri campanili, che qui si chiamano “ma’dena”, da cui moderni altoparlanti diffondono il richiamo vocale alla preghiera. Unici edifici vistosi, riconoscibili, le moschee, dalle più modeste alle più maestose, fanno sfoggio di una loro architettura specifica, che riunisce la tecnica moderna con le linee di una tradizione moresca mai passata di moda, una sintesi efficace di linee che nella loro eleganza tradiscono la cura con cui i fedeli provvedono al finanziamento e alla manutenzione dei loro templi, tanto più palese se la si confronta all’incompiutezza delle anonime abitazioni, spesso prive di intonaco esterno, basse e malconce.
Misurata è orgogliosa, lo è sempre stata, ma ora lo è di più. Come darle torto?Le bandiere della nuova Libia sventolano o campeggiano verniciate su qualsiasi superficie, dai pali della luce alle fiancate dei camion, scritte inneggianti alla vittoria, alla libertà, o in memoria dei caduti della città, che sola, orgogliosa come sempre, cinta d’assedio e bombardata da terra e da mare, ha portato avanti per mesi la lotta, strada per strada, isolato per isolato, palazzo per palazzo, casa per casa…
Sopra i tetti a terrazza squadrati, agli snodi delle vie e dietro la silouette di un profilo urbano al crepuscolo, svettano immancabili le chiome sgargianti di alte affusolate palme da dattero, a interrompere la monotonia orizzontale delle costruzioni, ad animare secondo il corso del vento un paesaggio altrimenti sempre uguale a se stesso, loro, regine incontrastate di quel mondo urbano al maschile, vivificante, vittoriosa, unica presenza femminile, a far da sentinelle alla città.
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