Io Chef: Cima di seppie alla melanzana tonda rossa con salsa di pane di Matera

Da Damt

Mia nonna scoppiava in lacrime, ogni volta che le si rompeva la cima.

E se questo capitava per la cima di Natale, quella che si preparava la vigilia, alzandosi a ore antelucane, in un rito-nel-rito condiviso con gran parte del vicinato, questo significava vederla col broncio per tutte le feste, col rischio di vedere annoverato quel 25 dicembre fra i giorni infausti degli annali di famiglia, senza nessuna apparente differenza fra le disgrazie vere e quelle culinarie: perchè, sia chiaro, da noi la Cima è una cosa seria.

Lo è, intanto, a cominciare dal nome "U l'è na cima" è l'espressione riservata ai cervelli fini, acuti e sottili  come le punte delle corde, le grandi alleate della gente del mare, prolungamento delle loro braccia, potenziamento delle loro forze, manifestazione concreta ed estrema di una intelligenza affinata dalla necessità di una vita che non fa sconti, spesa fra le onde di un elemento amato e odiato sin dal nome, quel "ma" che in dialetto significa anche "male" e che è un avviso ai naviganti, a non sottovalutarlo mai.

Gente di mare- e cucina di terra, in un binomio quasi schizofrenico, che riesce incomprensibile ai più. Il pesce, lo lasciamo ai foresti, ai bauscia, ai visi pallidi coi portafogli pieni che passano i Giovi per fare la gioia dei patron dei locali à la page. Per noi, teniamo una cucina dell'ingegno, quella per cui, sin dal primo boccone, smetti di rimpiangere la sorte che ti ha fatto povero, in mezzo ai ricchi e anzi, quasi la ringrazi- che se avessimo avuto le stalle del Piemonte e le aie dell'Emilia chissà, se avremmo scoperto il pesto o le infinite declinazioni della maggiorana o quell'equilibrio che è tutto nostro fra cucina che nutre, gratifica i sensi, e scalda il cuore.

E chissà se avremmo inventato la cima: che è un'astuzia dell'intelligenza dal retrogusto di uno scherzo feroce, un inno agli inganni dell'apparenza, il biglietto da visita di un popolo che dietro modi ruvidi e per nulla attraenti nasconde ricchezze indicibili ed infinite.

Questo ho pensato, quando ho aderito con entusiasmo all'invito di Teresa che, dalle colonne del suo blog, ci sfidava a valorizzare i prodotti della Lucania, facendo appello ad una fantasia che doveva trarre la sua linfa dal cuore: che bisognava metterci un po' di Genova, qui dentro. (E se qualcuno avesse qualcosa da obiettare, pensi un po' a cosa sarebbe stato quel delizioso capolavoro di Basilicata Coast to Coast senza quel gran pezzo di attore di Alessandro Gassman, per dire)

Alla fine ci ho messo la Cima, il piatto più nobile e più alto, in una versione doppiamente eretica, visto che la fonte ispiratrice è la Cima di Seppie che Corrado Carpi ha in carta da anni e che costituisce una delle ragioni per cui ha ancora senso uscire a cena fuori nella nostra città- che io ho rielaborato fino a stravolgerla del tutto, in una declinazione tutta lucana. L'aggiunta della salsa di pane è un'eresia tutta domestica e non sto più a tediare i lettori di questo blog sull'influenza della cucina britannica nella mia vita.

Un'ultima cosa: se ho aspettato l'ultimo giorno per pubblicare una ricetta che ho fatto praticamente il giorno stesso dell'arrivo dei prodotti, non è per manfrine o strategie da Rommell de noartri e neppure per la annosa questione della mancanza di tempo: è solo che oggi, 20 settembre 2013, mia nonna avrebbe compiuto cento anni. Non le dedico questa cima, perchè il Paradiso non è luogo di anatemi e non voglio che sia lei ad infrangere una regola che dura dall'eternità. Già me la vedo, a irrigidirsi tutta nel suo metro e sessanta di altezza, con l'espressione inorridita da scandalo della stagione, che la cima col pesce non si è mai vista e "'ste chi nu sun me-eizanne, sun tumate". Ma, anche se ho avuto la fortuna di godermela fino a poco tempo fa, ci sono momenti nella vita di tutti i giorni in cui la mancanza diventa vuoto- e raccontarsela non serve.

CIMA DI SEPPIE ALLA MELANZANA TONDA ROSSA E CACIORICOTTA

CON SALSA DI PANE DI MATERA ALLA MAGGIORANA

Pancia di vitella, circa 1 kg

ago lungo e filo robusto

La pancia di vitello la taglia il macellaio, ma la cuce la massaia: al massimo, potete chiedere a lui di pareggiarla bene e di togliervi l'eventuale grasso, ma l'ago e il filo son roba da donne. Quindi, prendete la carne, piegatela a libro e cucitene due lati, lasciando aperto il lato corto, da dove infilerete il ripieno.

Trucco della nonna: Ptima di riempirla,riempite con un po' d'acqua la pancia di vitello, per controllare la tenuta delle cuciture

Per il ripieno

600 g di seppie, circa

6 melanzane rosse di Rotonda

3 uova grandi*

una bella manciata di cacioricotta

1/ spicchio d'aglio

Olio extravergine lucano

2 h di mollica di pane raffermo (di Matera, in questo caso)

brodo di pesce o di verdura per ammollare la mollica

maggiorana fresca

sale, pepe

per il brodo di cottura

1 carota

1 gambo di sedano

1 cipolla

1 ciuffo di prezzemolo

"Scavare" le melanzane, in modo da eliminare la parte centrale dei semi, lasciando quanta più polpa possibile attaccata alla buccia. Tagliarle a fette, salarle leggermente e metterle in colino, sotto un peso, per fare perdere l'eventuale amaro. Lasciarle riposare un'ora circa.

Pulite bene le seppie, Lavatele e tagliatele a striscioline.

Fate andare e seppie in padella, in poco olio in cui avrete fatto imbiondire lo spicchio d'aglio, per 5-6 minuti, il tempo necessario a che ammorbidiscano.

Tritatele finemente a coltello o con la mezzaluna- non col mixer- le seppie, unirle alla mollica ammollata nel brodo e ben strizzata, alle uova, al cacioricotta grattugiato e alle melanzane, sciacquate, asciugate con carta assorbente da cucina e tagliate poi a cubetti della grandezza di mezzo cm circa. Salate, pepate e unite una manviata di maggiorana fresca.

Riempite la cima, fino a 3/4 al massimo: valutate che, durante la cottura, le uova gonfieranno il ripieno.

Sistemare la cima sul fondo di  una pentola molto capiente, coprirla completamente con acqua fredda, aggiungere i sapori (carota, sedano, cipolla e prezzemolo) e portate lentissimamente a bollore, a recipiente coperto. Proseguite la cottura, facendo sempre sobbollire, meglio ancora fremere appena l'acqua, per circa due ore.

Trucco della nonna: per evitare che in cottura la cima si spacchi, con conseguenti fuoriuscite di ripieno, è meglio avvolgerla in un telo bianco, perfettamente pulito. I Genvesi di una volta avevano da parte la piccaggetta per la cima, che veniva lavata senza detersivi, ma solo col sapone da bucato, quello che oggi chiameremmo "biologico".

La cima è pronta quando la carne è tenera. Scolatela dal brodo con un mestolo forato e mettetela fra due piatti piani, disponendo un peso su quello superiore: la cima deve raffreddare perdendo tutti i succhi, sia quelli che ha assorbito in cottura, sia i suoi propri.

Si consuma fredda, non di frigo, il giorno dopo. Si taglia solo al momento di servire, in fette spesse circa un dito.

Di solito, si serve con un'insalata verde. In questo caso, ho azzardato un accompagnamento molto british, con la salsa di pane che è il tradizionale abbinmento della carne ripiena delle tacole inglesi, tacchino di Natale su tutti.

ho insaporito un quarto  di latte con una cipolla, un chiodo di garofano, uno spicchio d'aglio e una spolverata di pepe bianco: ho fatto bollire, ho spento e ho lasciato in infusione per circa dieci minuti. Dopodichè, ho filttato tutto e ho aggiunto 80 g di mollica di pane di Matera: ho riportato sul fuoco, ho aggiustato di sale e ho fatto ridurre in crema. La ricetta originale, a questo punto, prevede il burro, io invece ho emulsionato con l'olio di ... aggiungendolo a filo, mescolando molto bene fino ad ottenere una salsa.

Con questa ricetta partecipo a Io Chef

Alessandra


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