Ecco una delle domande più frequenti che, in quanto mamma e da quando mamma, mi sento rivolgere, senza capire bene che conclusioni il mio eventuale interlocutore crede di poter trarre da una mia risposta in senso negativo o affermativo.
Chissà per quale strano meccanismo della mente rispondere a questa domanda apparentemente semplice getta la mamma in uno stato d'animo curiosamente eccitato, in bilico tra la volontà di rassicurare l'intervistatore di turno, la necessità di giustificarsi chissà per quale insondabile colpa o negligenza, e l'orgoglio di poter rispondere che, sì, in effetti ho allattato.
E qui potrei tranquillamente fermarmi.
E invece vado avanti a spiegare a quello, che quasi sicuramente non ha la minima idea di ciò di cui io stia parlando, com'è che ho smesso al quarto mese anziché al sesto, o addirittura all'anno, come pare sia altamente consigliabile e preferibile, come io abbia provato a insistere quando ho constatato che le mie tette avevano dato tutto il possibile e che le risorse alimentari che ero disposta a elargire erano esaurite, come non mi possa dolere dell'interruzione non certo da me voluta né cercata, ma in fondo ben accolta, quando ho potuto realizzare quanto mi sentissi più riposata e in forze una volta eliminato l'appuntamento con la poppata quattro o cinque volte al dì.
E con questo non voglio dire che la cosa in sé non sia gratificante e appagante. Solo che, nel mio caso, davvero non ho sofferto di nostalgia nel perdere questa consuetudine, le cui gioie ho dimenticato ben presto, ben più presto di quanto non mi sarei mai immaginata.
Dicono quando sei incinta: "Eh, ti mancherà il pancione!" E io ci credevo, anzi: ne ero profondamente convinta, che mi sarebbe mancato. Ma tutta quella lunghissima e dolorosa trafila di 40 ore e più aspettando di eliminarlo, toglierebbe a chiunque il rimpianto di non poterselo più accarezzare con dolcezza, e sguardo sognante, perso nell'imminenza di un meraviglioso domani.
Non mi è mancato il pancione, e non mi è mancato l'allattamento, anzi, con grande mia soddisfazione ho accolto il nuovo paio di tette che Madre Natura mi ha lasciate decisamente ridimensionate rispetto a come me le ricordavo, magari un poco smosciatelle, sì vabbé, non si può volere tutto dalla vita.
E' che io come dispensatrice fisiologica di nutrimento non mi ci vedo molto. E invece ho sempre avuto questo generoso paio di bocce che mi facevano sentire piuttosto atta alla mungitura, sensazione che invece si rivelerà esser stata unicamente illusoria. E i vestiti non mi stavano mai bene, soprattutto quelli con la fascia sotto il seno, che invece a me stava sempre sopra, e le camicie non mi si chiudevano, e un viscido capo che ho avuto durante un mio periodo di lavoro in una libreria di Pisa, amava rivolgersi a me con l'odioso appellativo di Miss-puppe. Tutto questo non c'è più, da quando ci sei tu.
Ma si parlava di allattamento.
Cosa dirvi che non sia stato già detto centuplicanta volte da altre?
Di quei mesi ho ricordi fumosi e confusi, come confusi e fumosi si ricordano generalmente i sogni, indice del fatto che non ero propriamente in me.
Ricordo la stanchezza, cronica, perenne, non ordinaria. Ricordo che avrei voluto dormire sempre, se possibile, e invece dormivo sempre poco e male, e comunque mi sarei volentieri risparmiata la prospettiva di trascorrere la stragrande maggioranza dei miei pomeriggi a trottare per la città a passo da bersagliere con una pupa infilata nel marsupio, ché lei solo così dormiva per periodi abbastanza lunghi da permettere a me di ricaricarmi nevralgicamente dai suoi incessanti pianti e richieste di attenzione.
Ricordo la mia impacciataggine a dover tirar fuori 'sta tetta enorme nei più svariati contesti, ché io non son mai stata di quelle che "vive la naturalesse", e tanto meno mi sentivo a mio agio calata nel ruolo di colei che offre il proprio corpo alla funzionalità primordiale e primaria di dispensare nutrimento e vita.
Mi sentivo relegata in un universo che non mi apparteneva troppo, ecco.
Non che lo facessi controvoglia, ma... lo facevo come un dovere a cui non mi sottraevo.
I primi tempi forse la mia resistenza psicologica potrebbe aver inibito anche la mia produzione lattifera, dato che fino a qualche giorno dopo la dimissione dall'ospedale, di produzione non ve n'era stata.
E non so se sia stato un fattore naturale e fisiologico, quanto piuttosto l'errato approccio ospedaliero, che nei primi due giorni dopo il parto ha mantenuto una distanza fisica ed emotiva tra me e il frutto del grembo mio, impedendomi di familiarizzare troppo sia con lei che con il mio nuovo status, e invece di "lavorare" sulla questione latte me ne andavo gironzolando per l'ospedale in preda a un'euforia difficilmente spiegabile, se si considera quello che chiamano "crollo ormonale post partum", ad accogliere gioiosa amici e parenti. E poi, oh, è di nuovo ora della poppata, scusate, ma devo andare.
Lì nel reparto neonatologia dell'edificio, la figura tipo dell'infermiera (ostetrica?) addetta al nido era più o meno questa: un'acida giovane donna intorno ai trenta, fresca fresca di laurea, saputella e scostante, con l'invalsa abitudine di trattare come pezze da piedi le malcapitate maldestre frastornate neomadri che osavano mettere piede nel loro regno senza essersi prima adeguatamente preparate sulla materia allattamento.
Io ero una di quelle.
Non sono una che prende i problemi con un ampio margine di tempo per l'azione.
Durante la gravidanza ho partecipato ad un corso pre-parto informativo in cui però la parte relativa all'allattamento, come ci dissero, era stata eliminata dal programma, poiché si era rivelata essere piuttosto inutile. Quando ci spiegarono in cosa consisteva questa parte del corso, fui d'accordo con la definizione di inutile. Consisteva dunque nel tenere in braccio a turno un orso di peluche delle dimensioni approssimativamente simili a quelle di un neonato, e nel mimare con lui in braccio il gesto di portarlo al seno. Ora la cosa, solo a pensarci, mi appariva grottesca e farsesca.
E infatti credo tuttora che fosse una pratica piuttosto inutile, come potrebbe confermare qualsiasi donna che abbia avuto a che fare con un neonato da allattare al seno.
Non c'entra molto con un orsacchiotto di peluche.
Il bambino appena nato è tutto floscio e casca da tutte le parti. L'orso no.
Il bambino ti dà l'impressione che se lo prendi male si rompa, che ti cada, che stia scomodo. Con l'orso non ti poni certi problemi.
Infine il bambino appena nato sembra trovarsi perennemente in uno stato letargico, dal quale ti sembra quasi un delitto doverlo riscuotere per potergli somministrare quel nutrimento che lui non si sogna nemmeno di chiederti.
E infatti Suster trascorreva un buon due terzi del tempo a disposizione per la poppata a contemplare la sua meravigliosa pargola dalla nera zazzera di capelli e occhi da cinesina, costantemente chiusi dal sonno. Credeva infatti che anche quella contemplazione estasiata facesse in qualche modo parte del complesso processo di instaurazione del rapporto madre-figlia, e pazienza se poi la pupa non si attaccava. Ma svegliarla, come potevo?
Così che ero sempre l'ultima ad attardarmi nel nido e, quando le altre rinfoderavano soddisfatte le proprie tette nei capienti reggiseni a scomparti estraibili, io stavo ancora lì a combattere con le mie, e mi attardavo ben oltre l'orario predisposto alla poppata. Le bambinaie laureate scalpitavano. Quando si dice: rispettare i tempi e le naturali esigenze del bambino (e della mamma, aggiungerei, la quale ha tutto il diritto di essere imbranata, cribbio!).
Comunque ben presto venni aspramente redarguita dalla capo-nursery miss-sottuttoio con queste parole: " Ma ragazze, possibile che vi ci voglia un'ora per allattare? Eh, su, svegliatevi un po'!"
Che nel mio caso non era proprio un invito fuori luogo. In effetti ero un pochino imbambolata, e non vedevo l'ora di potermene andare a casa mia a fare le cose nell'intimità delle mie stanze e senza nessuno che mi facesse sentire un'idiota se non riuscivo ad attaccare la bambina. Credevo io.
Ovviamente quel giorno arrivò e la scena che si verificò fu questa: io sola in casa, pupa urlante in braccio affamata e molto incacchiata. Di latte nemmeno l'ombra. Eravamo passati al supermercato a comprare il latte in polvere, ma nello stordimento generale, che a quanto pare aveva coinvolto anche il padre, c'eravamo dimenticati il biberon. Lui poi era andato a lavoro, e io mi ero accorta troppo tardi della dimenticanza, e allora spedisci mia madre a comperare l'indispensabile strumento, mentre io tentavo di imbonirmi la piccola.
Due amici arrivarono in quel frangente in visita e mi trovarono nel panico più totale. Scapparono via costernati dalle urla della dolce frugoletta per mai più tornare.
Attaccare la pupa al seno fu quanto di più doloroso le mie povere tette avessero mai sperimentato.
Il giorno dopo la dimissione dall'ospedale mi ritrovavo con due vulcani paonazzi laddove un tempo avevo due prominenti seni. Non saprei dirvi a che taglia di reggipetto io fossi arrivata poichè ormai giravo per casa coi vulcani al vento, avendo rinunciato a indossare qualsiasi indumento che mi potesse conferire un minimo di decenza, poiché qualsiasi contatto con la stoffa mi procurava grande dolore.
I vulcani erano paonazzi e gonfi all'inverosimile, ma dall'alto non stillava una goccia del prezioso liquido vitale.
La pupa intanto rivelava il suo reale carattere che finora aveva tenuto ben celato ai nostri occhi, forse nel timore che potessimo pensare di abbandonarla all'ospedale, e lasciare che fosse cresciuta dalle saccenti infermiere della nursery. Sbraitava e vieppiù si incaponiva e infieriva sui miei poveri incolpevoli vulcani doloranti con unghiette sufficientemente lunghe e affilate da procurarmi dolorosissimi graffi, al punto che mi vidi costretta a infilarle due calzini nelle mani per frenarne la furia distruttrice.
Fu allora che iniziai a dubitare di amare davvero mia figlia.
Tutto questo che vi ho descritto lo troverete nei manuali sotto la voce "ingorgo mammario". Care future mamme, vi auguro di non sperimentarlo mai.
Alla sera del secondo giorno toccai la pupa e mi sembrò che avesse la febbre. Sbagliavo: ero io ad avere la febbre, e stavo una merda. Sempre ingorgo mammario.
E qui vi faccio fare conoscenza con un altro simpatico strumento di tortura che si chiama "tiralatte".
Va infatti il padre nottetempo ad acquistarne uno in farmacia alla modica cifra di chevvelodicoaffare, meglio lasciar perdere, perché così aveva prescritto l'amica ginecologa di mia madre per telefono, per "sgorgare" i vulcani.
Il mio era un tiralatte a pompetta, che ora che ci penso potrei ritenere in parte responsabile della successiva tendinite carpale che mi porto dietro ormai da mesi.
Pompa pompa alla fine qualcosa esce: antiestetico liquido giallo opaco dalla consistenza simile a quella del burro fuso.
E fu così che finalmente allattai.
Tralascio i casini con gli orari, le paranoie, le indicazioni discordanti del pediatra, allatti troppo, allatti troppo poco, fai passare troppo tempo tra una poppata e l'altra, no ne fai passare troppo poco ecco perché 'sta bambina c'ha sempre le coliche.
Tralascio bilancia, pesate, nuove paranoie, ma sta bambina mangia o no? Ma l'aggiunta glie la devo dare? E svegliarsi mezz'ora prima per tirarmi il latte che ieri sera questa tetta non l'ho munta e ora mi sta per esplodere. Ma perché appena la prendo in braccio io inizia a piangere? Ecco, da me ci viene solo per mangiare, mi vede come una tetta gigante, io non ce la faccio più mi fa male la schiena, e addormentarmi con la cervice a novanta gradi reclinata su lei addormentata al seno che non ha fatto il ruttino e quindi mi ha intanto anche rigurgitato addosso.
Bellissime istantanee di vita che darei volentieri alle fiamme.
E quando finalmente credi di aver preso il ritmo, finito tutto: le erogazioni chiuse.
E allora ci provi per un po' con l'aggiunta artificiale, magari poi riprende, però mi raccomando falla attaccare se no non stimola il latte. E quella che ancora piange perchè non esce niente.
Ok, sono passati quattro mesi, che faccio? Diminuisco le poppate?
Stiracchia stiracchia, il latte è sempre meno. E allora sai che si fa?
Basta finiamola qui. Ma ora la bambina rimarrà traumatizzata, come farà senza la tetta di mamma, nutrita ad uno sterile (si fa per dire) arido biberon di latte in polvere ricostituito?
Ma la bambina nemmeno si accorge del passaggio di testimone.
Afferra soddisfatta il suo biberon e da quel momento vuole cambiar pure postura: non più adagiata sulle ginocchia di mamma; ora il latte si prende da seduta, e alla mamma si danno le spalle, così si può avere miglior visuale del mondo di fronte.
No, alla pupa non sembra esser mancato particolarmente il seno. E neanche a me l'allattamento. Niente traumi, tranquilli tutti.
Ecco: io come Madonna del latte continuo a non vedermici gran che. Archiviata momentaneamente e a tempo indefinito quella fase di mia vita, di cui non conservo quasi immagine visiva, nemmeno su carta fotografica.
Niente foto di me puppe all'aria mentre dispenso vita alla mia dolce frugoletta. O quasi!
Dico quasi perché una ce l'ho. E faccio questo sforzo di pubblicarla: la mia versione della Madonna del latte. Eccola:
Beh, chiarissimo, no? Direi che parla da sola. Scattata a tradimento. Io che ho una faccia tipo: "Minchia guardi?". E se ci fate caso, c'è pure Panzumen, che se la dorme beato, lì accanto.
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