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Io non lavoro, Neri Pozza: storie di italiani improduttivi e felici
Forse questo libro non ha esattamente le caratteristiche per rientrare nella categoria Romanzo. Posso solo sperare che Morgan decida di fare un piccolo strappo e gli regali uno spazio in rete. Sono storie vere di chi, per i motivi più diversi, ha deciso volontariamente di non lavorare. Sono però testimonianze scritte come veri e propri racconti. Le vite dei protagonisti sono raccontate con l'occhio della deformazione narrativa più che con la precisione del saggio antropologico. Il linguaggio della precisione coglie dettagli, dati e logica e di solito non accetta le contraddizioni. È un linguaggio che informa. Quello della vaghezza invece seduce e inventa storie e cornici narrative.
Questo è formalmente un libro di narrativa. Non ci interessa sapere se davvero le storie di cui parla siano vere o no. O se siano del tutto vere. Arrivano, ci accarezzano dove più siamo sensibili e ci solleticano a riflettere con la calda suggestione e non con il freddo ragionamento. Chi non ha mai pensato neanche per un minuto di smettere di lavorare?
In momenti come questo parlare di lavoro rischia di far esplodere polemiche, risentimenti, rabbie. Ma ai libri di favole è consentito di avventurarsi in luoghi solitamente preclusi al fantasticare, monopolio di seri studi e serie considerazioni sociologiche. E questo lasciapassare dipende forse proprio dal dichiarare subito l'abdicazione da ogni pretesa di spiegazione scientifica.
Il mondo dell'editoria è bizzarro. Se ascoltato con attenzione suggerisce motivi di riflessione da non trascurare. In periodi di crisi nera per il lavoro, con aziende che chiudono, cassaintegrazione, licenziamenti e disperazione urlata dai tetti delle fabbriche, da mesi arrivano in libreria libri che parlano di come smettere volontariamente di lavorare. Si è cominciato con "Adesso basta" pubblicato dalla casa editrice Chiarelettere, poi con "Io mi licenzio" della Vallardi Editore. Poi via via un profluvio di saggi e saggetti pronti a dirci come ridurre le ore di quella che, non a torto, è comunque una schiavitù moderna.
Difficile dire se questi libri parlino di possibilità reali o giochino solo su ingenue speranze. Certo è che hanno captato un disagio sottile che serpeggia nell'aria. È innegabile che sempre più spesso accada di ascoltare storie di disagio, quando non di vero e proprio rifiuto, legato al lavoro. Mi aspetto commenti del tipo: "Facile e ingrato lamentarsi del lavoro quando lo si ha." Giusto, giustissimo. Ma non è di quello che si parla. Il lavoro è una cosa nobilissima che va rispettata ma non sacralizzata.
Lasciamo perdere per un attimo quei fortunati che davvero amano il lavoro che fanno. Che ogni mattina si alzano con la consapevolezza di fare qualcosa in cui travasano una buona parte del loro sentire. Non è da tutti questa osmosi tra mondo dell'essere e mondo del fare. Per la maggior parte di noi non è così. Io chiedo semplicemente questo: "Se fosse possibile ricevere ogni mese la stessa cifra che riceviamo in cambio del nostro lavoro, senza però dover lavorare, cosa faremmo?".
Se non lavori non esisti. È un precetto che condividiamo o che ci portiamo addosso come un condizionamento? Se qualcuno pagasse l'affitto al posto nostro (ma queste cose succedono solo ai politici) ci alzeremmo tutte le mattine per chiuderci in metropolitane calde e puzzolenti? Passeremmo otto ore con persone di cui, molto spesso, non ci importa nulla? Eseguiremmo gesti che non ci arricchiscono e che potrebbero essere sostituiti da altri gesti altrettanto slegati da ciò che siamo davvero? Se, se, se. Eppure le favole a questo servono. Non vergogniamoci. Chi di noi ha un lavoro ringrazi le divinità, se ci crede, o la sua intraprendenza. Ma se non fossimo costretti dalle impellenze e dai rapporti sociali, lavoreremmo lo stesso? Dico noi comuni mortali che facciamo un lavoro senza essere quel lavoro. Allora, scevri da sovrastrutture culturali e sociali, leggiamo queste favole. Non sono necessariamente a lieto fine. Però leggiamole per quello che sono e sospendiamo il giudizio. I protagonisti di queste storie non sono né eroi né vigliacchi.
Cosa vuol dire fare un progetto di vita? Il libro invita semplicemente a farsi delle domande. Specificare linguisticamente può essere un gioco divertente. Quale progetto? Quale vita? Le persone di cui si narra in queste pagine non hanno avuto necessariamente un percorso facile o facilitato. La solitudine e lo sbandamento hanno toccato anche loro. Forse non hanno lavorato, forse lo hanno fatto per un certo periodo. Di certo non si può dire che non abbiano fatto nulla. Questa è la differenza. Tra lavorare e fare a volte c'è di mezzo il mare. Non sempre le due cose coincidono.
Il nostro rapporto con il lavoro è comunque qualcosa che merita qualche riflessione. E non è detto che questa riflessione debba per forza essere seriosa. Seria sì, ma è su un altro registro. Però non si possono relegare questi racconti nel regno dell'utopia. Sono semplici testimonianze di altri modi. Modi che coinvolgono più l'immagine di se stessi che la sostanza di se stessi. E ripeto che non è neanche un invito a lasciare il proprio lavoro.
In queste storie ci sono ambizioni tradite, calcoli sbagliati, progetti abortiti sul nascere ma mai superficialità. Una cosa è certa: sono un invito alla riflessione, perché è indubbio che qualcosa nel nostro modo di lavorare non funziona. Credo anche che il titolo non a caso sia "Non lavoro" e non "Non voglio lavorare" o "Non posso lavorare". La differenza sembra una sfumatura ma forse non lo è. Volere e potere sono verbi che stanno su un altro versante e che indicano riflessioni e motivi diversi. Non è di questo che si parla in questo libro. La quarta di copertina non rende giustizia al testo perché ammicca troppo, e rimanda a una felicità che non credo riguardi tutti i protagonisti delle storie in questione. Io consiglio di leggerlo proprio come un insieme di racconti, senza pretese di esaustività ma con onestà, se non intellettuale almeno di immaginazione.
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