Dunque, non si perde occasione per rinvigorire la retorica sulla sottocultura calabrese, sull’arretratezza degli ex bruzi, ora soltanto bruti e gretti a fronte del progresso economico e morale che tocca sempre agli altri e mai a noi. E sono poi soprattutto i calabresi stessi a ridare forza a un simile immaginario (vedi la Chaouqui del titolo o Domenico Naso del Fatto), evidentemente imbrigliati dentro la simbologia dominante che punisce la terra del Sud in nome di una vittoria cui la Calabria mai partecipa, perché è intrinsecamente povera e inetta, quasi a voler naturalizzare una sconfitta che semmai è innanzitutto storica e che rimanda ai fatti antecedenti il 1861.
Fa comodo a chi ha vinto e a chi sale sul carro del vincitore affondare la mano sull’idea tutta superstiziosa di una regione extrafrontaliera, dove la regola è che non esistono regole. Non importa che una siffatta rappresentazione non corrisponda al reale: ciò che conta è che sia accettata e che diventi linguaggio corrente. Solo così chi ha vinto può avere la chance di essere o salvatore o spietato sociologo, a seconda dei casi. Non è ragionevole leggere l’orrore di Corigliano secondo logiche locali e quasi tribali, riducendolo a un fatto che compete alla periferia marcia. L’ultimo femminicidio è una sciagura che riguarda il Paese intero, sono gli italiani tutti a essere chiamati a farci i conti perché l’ordinaria follia è diventata una norma, una prassi diffusa. In una stagione in cui crollano i riferimenti tradizionali, lavoro-famiglia-casa, l’abitudine a esser dentro trame di linguaggi e affetti più meno consolidate cede il passo alla totale perdita dell’orientamento, dunque alla spersonalizzazione, all’uscir fuori di sé. La Calabria ha problemi assai. Per chi non ha vinto ma ha perso e tuttavia continua a difendersi, è triste vederli posti secondo modi farraginosi e per alzate di spalla. Le risposte poi sono ancora più tristi: sentenze frettolose e sprovvedute, al limite della chiacchiera, tanto d’impatto quanto infondate.
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