Sulla vita, e sulla morte, di William Shakespeare si sono fatte le congetture di volta in volta più singolari, deliranti, curiose e campanilistiche che si possano immaginare. C’è chi ha affermato che dietro il nome del Bardo si nascondevano altri autori, e sono stati fatti nomi del calibro di Francis Bacon, Christopher Marlowe, Walter Raleigh, e chi più ne ha più ne metta.
In questo solco si inserisce il romanzo di Brünhilde Jouannic, Io sono Shakespeare, edito nel nostro Paese da Cavallo di Ferro, con la traduzione di Marina Marino. Il testo che, come recitano annunci e strilloni ha ispirato anche il recente lungometraggio di Roland Emmerich Anonymous, racconta, in agili capitoletti, a metà tra il diaristico, l’autobiografico e l’elegiaco, la storia di Edward de Vere, il “vero Shakespeare”, conte di Oxford e cortigiano in età elisabettiana, acquisendo appunto una delle ipotesi “complottiste” di cui sopra, e cioè quella per cui William Shakespeare fu solo un attore di poco valore, e un prestanome per la pubblicazione di opere non sue.
In linea con l’idea di una drammaturgia, o qualcosa di simile, in rapporto di filiazione diretta con la vita reale del conte de Vere, la vicenda personale, e più ancora l’esistenza del conte, quasi nella sua totalità, danno alla luce le opere che tutti conosciamo. Una morte genera Re Lear, un matrimonio Amleto, e così via.
Dall’incipit, “panico” e in certo modo caratteristico, «Com’è avvincente lo spettacolo della natura, questa mattina», si svolge una narrazione che procede, ci sembra, in due sensi e con due tensioni opposte: la prima, nel raccontare la storia partendo dall’inizio, come farebbe un bravo e assennato biografo, cercando di mettere a fuoco tutti i passaggi salienti e necessari alla comprensione. La seconda, con una tendenza a contaminare questa sorta di resoconto attraverso riflessioni proprie del presente dell’affabulazione.
C’è da dire che il romanzo della Jouannic ha dalla sua la qualità di una orchestrazione onesta e anche piacevole, la quale non potrà non condurre ad un minimo di empatia con il protagonista: personaggio tanto libero, libertino anche, quanto costretto in una pirandelliana Forma che lui stesso ha costruito, e con sapienza, attorno e dentro di sé.
Altrettanto gradevole, almeno per chi è più smaliziato nei confronti della bibliografia dello scrittore di Stratford-upon-Avon, risulteranno le corrispondenze, quasi baudelariane, tra vita vissuta e “racconto” teatrale.
Con tutta probabilità, l’impaccio, il disturbo maggiormente rilevante in riferimento a Io sono Shakespeare, sta all’esterno del romanzo, nell’intricatissima selva, purtroppo ritornata di recente molto in auge, di congetture, ipotesi, rivendicazioni che, sebbene non possano minimamente attentare alla statura drammaturgica dell’autore, così come definito e delineato da studi sistematici, d’altro canto fanno correre il rischio di apparentare uno dei momenti più luminosi, almeno negli esiti, della storia dell’Occidente, non a caso posto al centro del mondo letterario da qualcuno più accorto, in una specie di malconcio caravanserraglio, tanto, troppo, vicino alla nostra perduta sensibilità, oggi surrogata, a livello massmediatico, da pseudo-narrazioni popolari piuttosto fruste, metanarrative nel senso peggiore del termine, e autoreferenziali sino all’autofagia.
Insomma, espunte polemiche e raffazzonate etichette o, se proprio non riusciamo, almeno relativizzate, Io sono Shakespeare risulta un romanzo piacevole, agile ma non banale, con cui trascorrere qualche ora senza gridare al miracolo e neanche maledicendo.
Domanda legittima, però, potrebbe essere: un volume di questo genere, se raccontasse una storia “qualunque”, avrebbe la stessa valenza?
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