Ricordate la storia di Sattar Beheshti, il blogger iraniano ucciso nell’ottobre scorso in Iran? Fummo praticamente i primi in Italia a riportare la notizia, con un articolo dal titolo “Morire per Facebook? In Iran si può“. Fortunatamente la notizia fu ripresa da diversi media nazionali e, per una volta, anche il grande pubblico riuscì a conoscere la vicenda di Sattar Beheshti, blogger e attivista iraniano, arrestato per aver usato Facebook allo scopo di difendere i lavoratori iraniani oppressi dal regime. Dopo l’arresto e l’arrivo ad Evin, il povero Sattar venne torturato e in pochi giorni spirò.
Come suddetto, la notizia divenne presto internazionale, soprattutto grazie al lavoro degli attivisti per la libertà dell’Iran. Lo stesso regime iraniano, pochi giorni dopo la morte di Sattar, fu costretto ad aprire una inchiesta. Secondo le indiscrezioni giunte da Teheran, sei guardie del carcere di Evin vennero interrogate, ma i veri responsabili non vennero mai incarcerati.
Dopo mesi di attesa in dignitoso silenzio, la famiglia di Sattar ha deciso di uscire allo scoperto, nonostante i rischi di una scelta del genere. La madre di Sattar, Gohar Eshghi, in una intervista concessa all’Agenzia Saham News ha minacciato il suicidio nel caso in cui la giustizia le continui ad essere negata. La signora Eshghi ha anche reso noto che, in questi mesi, le autorità iraniane hanno tentato (inutilmente) di comprare il suo silenzio con dei soldi.
Ricordiamo che, oltre alle carceri ufficiali, in Iran esistono decine e decine di centri di detenzione fuori dal controllo dell’autorità centrale, in mano a miliziani capaci di ogni genere di massacro.