Di Paolo Gallazzi il 10 ottobre | ore 17 : 20 PM
Vogliamo raccontarvi due storie. La prima racconta la vicenda di Peyman Aref, uno studente di scienze politiche di Teheran, condannato nel marzo del 2010 dopo essere stato dichiarato colpevole di aver fatto propaganda contro il regime, parlando con media stranieri. Aref, che era già stato arrestato in precedenza durante le contestate elezioni presidenziali del 2009 che portarono alla riconferma di Mahmoud Ahmadinejad, oltre ad essere diffidato dall’appartenere a qualunque partito politico e dal praticare la professione di giornalista per tutta la vita, per aver scritto una lettera “di insulto” al presidente, è stato condannato a 74 frustate, sentenza eseguita ieri (domenica) poco prima della scarcerazione di Aref dal carcere di Evin (Teheran). Forse potrà essere altrettanto scioccante sapere che l’“insulto” di Aref consiste nel fatto che lo studente ha iniziato la propria lettera senza la consueta forma di saluto formale “Salam”, reato grave, a quanto pare, in Iran.
La comunità online ha reagito immediatamente con durissimi commenti di condanna e divulgando le foto della schiena coperta di sangue del giovane sui siti dei più importanti social network (Facebook, Twitter, ecc…).
La seconda storia riguarda l’attrice iraniana Marzieh Vafamehr, condannata ad un anno di carcere e 90 frustate per il ruolo di protagonista assunto in My Teheran for Sale, film che racconta le difficoltà che vivono gli artisti in Iran. Marzieh Vafamehr è la moglie di Nasser Taghvai, un noto regista e sceneggiatore iraniano, che aveva prodotto la “scottante” pellicola con la collaborazione di una società australiana. Secondo le fonti ufficiali del governo iraniano il film non aveva ricevuto alcuna autorizzazione per poter essere proiettato ed era stato distribuito illegalmente. L’attrice, che gode di una certa fama in Iran, aveva scampato il carcere pagando una cauzione (la cui cifra non è stata rivelata), ma per le frustate non c’è stato nulla da fare, nessuna somma di denaro avrebbe potuto aiutarla. Così umiliazione e sofferenza non sono state condonate.
Le punizioni corporali, inflitte per provocare dolore ed umiliazione, appaiono a noi occidentali come qualcosa che si perde nella memoria delle generazioni che ci hanno preceduto, un retaggio del passato che in qualche modo stimola ancora l’immaginazione ed affascina le menti, facendo leva sul morboso interesse che si prova sempre di fronte al macabro ed alla sofferenza altrui. Nei musei ci si sofferma sempre davanti ad uno dei tanti marchingegni che l’inventiva dell’uomo ha saputo creare per applicare sempre più nuove e raffinate forme di tortura. Qualcuno potrebbe sostenere che tutto ciò fa parte del nostro DNA, probabili vestigia di quando le nostre case erano caverne. Ma la razionalità, la compassione e la spiritualità sospingono l’umanità lungo direttrici obbligate per l’evoluzione sociale e rappresentano le forze preponderanti nella lotta per la sopravvivenza della specie, riuscendo ad avere la meglio sulle più bieche pulsioni dell’anima, tanto da creare disgusto per la pratica sistematica della violenza ed isolare ed allontanare dalla società i soggetti che si rendono protagonisti di tali atti.
Ma il seme della contraddizione, si sa, è difficile da eradicare. Nazioni tra le più civili, come gli Stati Uniti, non intendono certo abbandonare le secolare tradizione della pena di morte (pratica che fece impallidire il nostro Cesare Beccaria quando l’America non era ancora una nazione), mentre la tortura è ammessa solo quando viene “delegata” ad un altro Paese. Ma di fronte all’uso sistematico e repressivo di forme di punizione corporali il mondo occidentale non può che inorridire. Soprattutto quando il Paese che le applica è nemico giurato dell’occidente. Ed è proprio questo il caso dell’Iran.