«Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.». Edvard Munch
di Rina Brundu. “NEVER AGAIN” leggeva l’enorme striscione che sabato sera, in quel di Dublino, apriva la manifestazione di 12ooo persone (fonte GARDA), indetta per reclamare una legislazione in favore del diritto delle donne ad abortire; una legislazione mancante da milioni di anni e resa quanto mai urgente dalla recente morte della giovane dentista indiana Savita Halappanavar.
La rabbia era l’elemento chiave che ne ha determinato l’organizzazione. La rabbia dei familiari della vittima, la rabbia delle donne, la rabbia degli attivisti che difendono i diritti civili, la rabbia di chi osserva. La rabbia di noi irlandesi di adozione che oltre la rabbia non possiamo ignorare il bigottismo che spesso e volentieri avviluppa le dinamiche politico-religiose di questo piccolo-grande Paese, a volte davvero grande, il più delle volte sicuramente troppo piccolo. Sicuramente troppo piccolo e soffocante per tutte quelle donne che, da decenni, nel silenzio, con la complicità familiare e con la complicità di un sistema connivente ma politicamente incapace volano in Inghilterra per abortire o semplicemente per prendersi cura della loro salute di donne.
Non sono la miglior persona per discutere di magagne civili dell’Irlanda moderna. L’Irlanda che ho vissuto io negli ultimi venti anni era infatti un mondo sa sé. Era ed è l’Irlanda delle compagnie tech americane prima e finanziarie europee poi. Quelle stesse società che l’hanno colonizzata sul finire dello scorso millennio e modificata a loro immagine o somiglianza. O quasi. Perché se è vero che l’isola Smeralda di oggi è molto diversa da quella di sempre, da quella che per secoli ha conosciuto solo fame ed emigrazione, vessazioni politiche e civili, é pure vero che c’è una sorta di substrato civile-umano autoctono, una sorta di immaginaria linea di confine che, con orgoglio e testardaggine tipicamente celtiche, è rimasta refrattaria a qualsiasi mutazione e che, a mio avviso, è alla base dell’immobilità incurabile, perenne, che affligge il Paese. E i suoi figli.
Non sono la miglior persona per discutere delle magagne civili dell’Irlanda moderna. Per esempio, non sono mai riuscita a scrivere – in alcuna occasione (che pure non sono mancate in questi anni!) – di ciò che è stato lo scandalo pedofilia in questa nazione cattolica per storia, necessità e per impotenza. Non sono mai riuscita a farlo perché quando il male è così grande l’unica reazione che riesce a suscitare dentro è una sorta di angoscia munchiana, una angoscia che smarrice e avvilisce nella sensazione di infinita impotenza che l’accompagna. Tutto ciò che sono riuscita a fare è conservare viva nella memoria, quasi a proteggerla per non dimenticare, l’immagine di quella piacevole, solitaria villetta davanti alla quale passavo mentre andavo e tornavo dal lavoro, e sulla cui porta il GARDA (la polizia irlandese), tre o quattro anni fa, aveva affisso un cartello che riportava a caratteri giganti un ordine perentorio e secco: tenere lontano i bambini!
Paragonata a simili faccende degne del peggior campo di concentramento nazista anche la questione Savita, nella sua gravità, anche la questione del diritto delle donne di decidere per loro stesse, passa in secondo piano. Occorre notare però che tutte, tutte queste situazioni dolorissime sono frutto della coercizione politica e civile prima e del bigottismo fanatico di ritorno poi. Sono figlie della mancanza di una possibilità di educazione compiuta (che purtroppo non può essere data dalla ricchezza mordi e fuggi procurata dagli investimenti stranieri attirati dalle agevolazioni fiscali), che nel suo non-esistere soffoca ogni possibilità dell’Essere di emanciparsi.
Non sono la miglior persona per discutere delle magagne civili dell’Irlanda moderna. E non sono la miglior persona per parlare di crimini religiosi perché abborro il concetto stesso di un sistema di regole condivise che possano imbrigliare la libertà del mio Spirito. Faccio una fatica enorme a capire che oggidì si sia ancora qui a discutere del diritto delle donne a decidere per il loro corpo e per loro stesse e faccio maggiore fatica a pensare che si possa anche soltanto dar voce a chi la pensa altrimenti. Faccio una fatica bestiale a realizzare che, nelle nazioni del cosiddetto primo-mondo, in questa dimensione digitalizzata, esistano ancora larghi strati di popolazione (anche scolarizzata, spesso fino a livello universitario), il cui pensiero è sentimento continua a vivere imbrigliato dalle oppressive dinamiche procurate da riti e miti arcaici, religiosi o pseudo-tali, formalizzati, formalizzanti e sacralizzati fino a diventare catene, fino a trasformare l’ideale angosciata comunità munchiana in quella dei The Dead brillantemente descritta da quel James Joyce accorto e in fuga da una comunità dublinese senza speranza.
Tuttavia, si sarebbe meno che uomini e donne degni di questo nome se almeno una volta nella vita non si imbrattasse da qualche parte un muro, anche se solo virtuale, per esprimere il nostro dissenso, per far sentire la nostra vicinanza al dolore di infinite vittime senza nome, ad un dolore sordo e muto, ad un dolore che è compagno di sempre delle vicende quotidiane di un popolo irlandese altrimenti meraviglioso, amabile e bellissimo. Si sarebbe meno che uomini e donne degni di questo nome se non si avesse il coraggio di venire fuori e di aggiungere la nostra voce a quelle di milioni di altri spiriti liberi: SAVITA, NEVER AGAIN!